Tom Verlaine: una chitarra e una voce sempre giovane

Television - Adventure 1978

Il chitarrista Tom Verlaine è mancato sabato notte. É stato fondatore del gruppo Television ed esordì con un album meraviglioso nel 1977: Marquee Moon. Un disco in cui la sua chitarra e la sua voce sono particolarmente vivi tutt’ora. La sua musica allora era incredibilmente nuova per essere suonata dal classico quartetto rock (due chitarre, basso e batteria). Marquee Moon ha toccato i cuori di tante persone ed ispirato tantissimi musicisti. Quando lo ascolto, ritrovo sempre un senso di giovinezza libera, che mi porta speranza per il futuro, pur sempre rimanendo saldo nel presente. Il suono della chitarra è talmente entusiasmante, che mi fa venire voglia di prenderla in mano e suonarla. È proprio l’urgenza di “dire qualcosa”, di dialogare con le persone, andando dritti al cuore, al di là del grigiore che magari ci si ritrova talvolta. Tom Verlaine scrisse e registrò per la prima volta Marquee Moon nel 1977 a New York.

Lo voglio ricordare con il secondo album dei Television, Adventure (1978), bello, ma non importante come il primo disco. Adventure è rosso, è più melodico e avrebbe poi portato Tom Verlaine ad una carriera solista.

David Crosby, la musica è amore

David Crosby Flag Gun 1970 di Henry Diltz

David Crosby è stato un grande chitarrista, un vecchio sognatore hippie, un “fricchettone”. Fu uno dei fondatori dei Byrds e ha formato svariate band con Graham Nash, Stephen Stills e Neil Young. Il suo primo album da solista “If I Could Only Remember My Name” (1971) è una meraviglia sonora, frutto dell’estate dell’amore della California degli anni ’60. Suonato e con i contributi di tanti amici, fra cui Joni Mitchell, Jerry Garcia dei Grateful Dead, i Jefferson Airplane, oltre a Nash e Young.
Amo questo disco per il senso di amicizia, di partecipazione e per il calore umano che traspare da ogni sua canzone, spesso arricchita dai cori degli amici. Nella copertina dell’album c’è il viso del musicista sovrapposto ad un tramonto sull’oceano, miglior rappresentazione grafica, penso non si poteva ideare. David Crosby è mancato ieri notte.

Franco Battiato e la verità

Franco Battiato

Sono per l’assoluta crudeltà della verità.
Se ti trovi di fronte ad un dolore devi affrontarlo come un samurai.
Franco Battiato

Nada 18 novembre 2022 Brescia

Nada 18 novembre 2022 Brescia

Nada in concerto a Brescia alla Latteria Molloy. Un bel concerto con una carica interpretativa molto personale. Nada era accompagnata dai musicisti con cui ha inciso l’ultimo album “La paura va via da sé e i pensieri brillano”.

Alcune foto dei musicisti che hanno suonato assieme a Nada.

Pearl Jam 25 giugno 2022 Imola

Avevamo una grande aspettativa per il concerto dei Pearl Jam a Imola. Una attesa durata più di due anni, ma finalmente siamo riusciti a sentire Eddie Vedder e soci in concerto. La band di Seattle ha intrapeso un giro di concerti in Europa, facendo tappa unica ad Imola. Un concerto tanto desiderato dal pubblico italiano e dal sottoscritto. Credo che siano stati venduti circa sessantamila biglietti per ascoltare i Pearl Jam. È stato un corcerto imponente, con un palco grande, un impanto di amplificazione potente e con dei mega schermi, che quasi ci è sembrato d’essere lì, con la band sul palco.

Un’applauso caloroso e soddisfatto per salutare la band di Seattle.

Fine dell’esibizione e come dice un mio amico: “un concerto che fa curriculum“.

La locandina del concerto di 2022 dei Pearl Jam.

La lista delle canzoni suonate dai Pearl Jam al concerto di Imola 25 giugno 2022.

Il poster ufficiale dedicato al concerto di Imola.

Pearl Poster ufficiale dedicato a Imola 25/06/2022

Voglio ringraziare i gestori di Pearl Jam On line per tutte le informazioni sul concerto di Imola.

Kailashnero Verona 12/09/2022

I Kailashnero fanno “rock popolare di protesta” e sono di Verona. La musica è un ondata elettrica fluttuante, a volte ipnotica, ma non ripetitiva. Molte interessanti ed emozionanti i ricami delle chitarre. I testi sono in italiano e colpiscono per la critica sociale, soprattutto per il periodo attuale. I musicisti hanno trasmesso con la musica, la voglia di suonare per le persone. Un gruppo musicale da tenere sott’occhio.

Il gruppo veronese è formato da: Giulio (voce), Graziano (basso), Riccardo (batteria), Sebastiano e Gianluca (chitarre).

Riferimento: Kailashnero su Bandcamp.com

I Kailashnero sono:

Svend: Voce
Al Camuneros: Basso
Effe: Chitarra e Sintesi
Giribu: Chitarra e Voce
Lalo: Batteria

Parole: Svend
Musica: Kailashnero

Cose belle del 2022 di Marco Pandin

Marco Pandin mi ha scritto le 13 cose belle del 2022. Sono sempre preziose per me, sono un bel regalo ed un appuntamento per rinnovare l’affetto e l’amicizia che ci lega. Penso siano importanti ed interessanti da leggere, del resto come quelle del 2021. Buona lettura, visione ed ascolto.

13 cose belle di Marco Pandin

Tredici cose belle del 2022.

Libri riviste dischi concerti incontri in ordine sparso, forse in ordine di temperatura. Tredici perché questo numero accende la superstizione.

– L’album “Solace” dell’irlandese Patrick Dexter, uscito in primavera. Musica immaginata e offerta da tutt’altro punto di vista [qui https://www.youtube.com/watch?v=YVDlIaRagCI un assaggio]. Registrata all’aperto verosimilmente lontano dalla città, nei microfoni entrano il violoncello e il fruscio disturbante dei ragionamenti a proposito della pandemia, ma anche il respiro del musicista e quello dello strumento, e l’aria che si sposta, e il canto degli uccelli, gli insetti curiosi che si avvicinano ai microfoni, le foglie sugli alberi e il va e vieni delle nuvole sullo sfondo. Manca solo il cane dei vicini, ma potrebbe anche esserci e non ci si fa proprio caso. Fa sorridere e insieme riflettere che venga pubblicato oggi un disco immaginato e realizzato in questo modo biologico e naturale e pacifico dopo decenni di battaglie sanguinose per conquistare artificialmente in studio il silenzio su cui costruire e far risaltare il suono nella sua purezza più glaciale. Ma così sembra tutto più caldo ed umano, e attraverso le orecchie senti il sole che ti entra sotto la pelle, e con lui in punta di piedi entrano tutto il verde dell’erba e l’azzurro del cielo e i sussurri delle api a risvegliare ogni amore di ogni bestia che tieni nascosta dentro. Addormentarsi in compagnia di questo disco è bellissimo. Lasciatelo proseguire, perché risvegliarsi mentre suona questo disco è, se possibile, ancora più bello ed appagante.

Toni Bruna che a mezzanotte canta e suona e racconta storie davanti al teatro Miela di Trieste, metà marzo. Al suo concerto quella sera erano rimaste fuori parecchie persone senza biglietto e senza green pass – e non era giusto. Così a un certo punto ha detto due parole, ha abbandonato il palco e la sala e si è messo lì fuori a fare il busker, davanti a cento e più anime in fiamme nonostante il borino. Cosa vi posso dire io di quelle sue canzoni di confine, che raccontano di gente rimasta sola e di posti rimasti soli senza la gente. Così esili, fatte d’acqua e d’aria, così leggere ad attraversare in volo le nostre discussioni e ragionamenti, i campi di grano e di battaglia, nazioni in conflitto e conflitti televisivi, le dogane, i cimiteri, il mare. Sono canzoni di costituzione fragile, che sembrano poco adatte a cantare di resistenze e rivoluzioni, eppure ciascuna si rivela come un modo diverso e inedito di parlare d’amore. Gli chiedo come fa, lui dice che le parole gli escono fuori così e non sa come mai. Adoro come fa strisciare le dita sulle corde della chitarra quando cambia gli accordi: è proprio lo stesso rumore che ho dentro in testa ogni volta che cambio idea, quando mi nasce un’idea nuova.

– l’album “Afrikan culture” di Shabaka Hutchings, uscito poco prima dell’estate, è uno di quei dischi che ti alzano di un metro o due da terra e ti lasciano là. All’inizio sembra quasi che si siano sbagliati e che dentro la copertina sia finito un disco di Stephan Micus. L’ha pubblicato una major, forse si saranno sbagliati anche loro – avranno creduto fosse jazz da vendere ai bancari. Nei negozi lo vendono ai bancari come jazz. E invece dentro ci sono i leoni, le terre perse, le schegge della mezzanotte, le barene dove non sei in terra né in acqua, i posti inesplorati che stanno dopo l’ultima fermata dell’autobus. Un continente intero di suggestioni compresso in una mezz’ora scarsa. Un’eruzione esplosiva di spiriti e presenze, migliaia e migliaia di metri cubi di rovente ispirazione ancestrale rilasciati nell’atmosfera. Tutt’altro che un documentario, una mappa o una profezia, o forse le tre cose insieme. Sono andato a rileggermi Iosif Brodskij che raccontava la precarietà dell’equilibrio e l’allarme dei sensi durante un viaggio in vaporetto, lui abituato com’era alla terraferma e al freddo. Un lavoro di una bellezza sconfinata e irraccontabile questo di Hutchings – e infatti è un po’ che sono qui che scrivo e cancello e riscrivo e cancello ancora queste ultime due tre righe senza trovare niente che si avvicini alle onde alte che mi si agitano nello stomaco e dietro gli occhi. Se esistono gli dei, li trovi sui vaporetti verso Castello e hanno di certo questo disco piazzato in loop perpetuo dentro i loro walkman.

– le ultime poesie di Gregory Corso, raccolte in “The golden dot” e stampate da Lithic Press in agosto [info e richieste qui www.lithicpress.com]. Molte sono senza titolo, solo la prima è al suo posto e forse anche la seconda mentre tutte le altre sono in ordine casuale – come voleva lui. Sono un viaggio che si trascina dentro gli anni che seguono la morte del suo amico e mentore Allen Ginsberg, viaggio tormentato dalla depressione e da reiterati disastri di salute e che si chiude con la morte di Corso avvenuta nel gennaio del millennio nuovo che lui desiderava fortemente toccare con le dita. Figlio di due minorenni poverissimi di origine italiana e presto abbandonato, aveva passato l’infanzia tra orfanotrofi e affidamenti temporanei, e l’adolescenza tra la strada e il riformatorio. E’ finito dietro le sbarre a diciassette anni per aver rubato di che vestirsi – messa così somiglia a una storia di quelle che raccontano in chiesa. E’ nella biblioteca del carcere che Gregory trova ispirazione e riscatto, i suoi compagni di prigionia sono i suoi angeli. Nel libro i curatori spiegano perché ci siano voluti vent’anni per pubblicare queste righe preziose. Corso è uno dei miei poeti preferiti. Nell’estate del 1980 ho avuto la fortuna e il privilegio di assistere a una sua breve lettura: indossava la divisa dello sbruffone, ma nascosto sotto c’era uno spirito sensibile che continuava a meravigliarsi della sua popolarità, e a temerla – come temeva la solitudine.

– il docufilm “Po” di Andrea Segre e Gian Antonio Stella uscito nelle sale a marzo [qui https://www.youtube.com/watch?v=FT4tyi9H7g8 un estratto]. Un’ora e mezza di accelerazioni e strattoni del cuore durante la quale ho messo a confronto le immagini che mi scorrevano dinanzi con i racconti dei miei genitori e dei miei nonni. Storie di quando non ero ancora nato, successe per davvero solamente qualche anno prima dal mio arrivo e che però ho sempre immaginato leggende da chissà quale passato remoto, il tutto filtrato attraverso la mia esperienza piccola – l’acqua granda del 1966 che ancora ricordo distintamente. Sono le storie minime tipiche della gente povera, fatte di roba poco consistente come schegge, calcinacci, segni sui muri, attimi, polvere, gocce, illusioni, e qualche cosa grossa che non si dimentica come la condivisione, la speranza, le parole che guariscono e il sostegno reciproco. Storie dove a volte basta solo un sorriso per squarciare la nebbia più nera e alleggerire il carico grave della miseria. Il documentario racconta una cosa importante, che è poi la stessa che aveva insegnato il grande vecchio Mario Rigoni Stern: è solo soffermandosi ad ascoltare e raccogliere tutte le piccole storie che la Storia può meritarsi un’iniziale maiuscola orgogliosa e fiera e che perdura. Poi però nei libri va a finire quell’altra, quella che insegnano a brandelli nelle scuole e omogeneizzata dentro le televisioni e che io scrivo apposta in minuscolo: storia che ha la stessa voce del padrone e viene descritta invariabilmente da quelli che hanno imparato a scrivere sotto la dettatura feroce di chi ha vinto.

– Tiziano Sgarbi che canta in una piccola corte giù sotto casa prima di un suo amico olandese, ai primi di giugno. Senza amplificazione, senza microfono, senza segreti e senza mi cantino. Non lo vedevo da un po’, da quando si faceva chiamare Bob Corn: quei vestiti che nascondono male la sua magrezza, il grigio dei capelli che non riesce ad annacquare la sua determinazione, la sua irrequietezza inossidabile al tempo che passa. Stiamo parlando di uno che ha impastato con le sue mani la scena indipendente del nostro paese, giusto per puntualizzare. Fa solo pochi pezzi, uno è di Will Oldham un altro non ricordo di chi. A un certo punto racconta “La mela di Odessa” e io vado in frantumi, e mentre sono là che cerco di raccogliere i pezzi da terra mi accorgo che il peso di questi anni di ciarpame new wave pop punk non è affatto riuscito a schiacciarmi. E nonostante la musica leggerissima che cola giù dalle radioline e dai telefonini del mondo intero io ritrovo respiro, e ritrovo aria, e ritrovo luce e voglia, e mi ricarico di salute, di propositi, di energia buona, di futuri possibili. Il suo amico olandese è Zea cioè Arnold De Boer cioè cazzo il cantante degli Ex – che per me significa ritrovarmi ad abbracciare quella persona che per anni mi ha tenuto per mano e sorretto mentre ero preso a non affogare nella sfiga, ma che ho solamente potuto intravedere di sfuggita dentro ai dischi. E invece di dirgli grazie e raccontargli tutto riesco solo a restarmene là col respiro sospeso, gli occhi umidi e le parole incastrate in gola.

– la performance di Path in apertura del concerto degli Ombra al Tank di Bologna, verso metà aprile. Luci basse e odore acre di disordine misto a birra spanta, come il giorno dopo un party. Eccolo che entra, lupo grigio che neanche si guarda intorno, in un attimo è già sul palco. Tiene lo sguardo raso terra sì, ma dai denti gli escono versi roventi e le parole sono pallottole. E’ così abile che neanche prende la mira: al primo pezzo ero là stordito, mi ha fatto fuori al secondo. Me li vedo già tutti quei miei amici sapienti e criticoni, quelli che si annoiano perché hanno ormai già ascoltato e capito tutto, a disquisire sulle percentuali di Woody Guthrie e di Billy Bragg dosate dentro a questa voce giovane. Voglio tanto bene a Woody e a Billy ma lasciamoli stare dove sono per carità, per me è Path e basta. Path che canta quelle sue canzoni arruffate e con poca speranza dentro cui ho ritrovato un pezzo di me, ed è un pezzo che sanguina forte: mi guarda fisso negli occhi e non sorride affatto.

– il libro “La Resistenza in 100 canti” curato da Alessio Lega uscito ad aprile [cercatelo qui www.mimesisedizioni.it oppure qui www.alessiolega.it]. Duecentocinquanta pagine abbondanti. Un mattone, e bello pesante, che può venire utile: prendendo con attenzione la mira lo si può scagliare contro le finestre pulite dei palazzi di chi comanda. Il mio caro amico e fratello e compagno salentino ha raccolto una serie di scritti commoventi, offrendo per ciascuna canzone una bella storia che ha per protagonisti ragazze e ragazzi disposti a sacrificare sé stessi e il loro futuro piuttosto che vivere senza libertà. E sono storie vere, pensate: c’è gente che si è addirittura fatta ammazzare per permettere a me e a voi di cantare. Lo si dovrebbe far circolare nelle scuole per educare i bambini alla solidarietà e alla gentilezza, e invece è un libro che davvero non ha posto in questo paese di sottosegretari e memorie tagliate corte.

– il concerto di Silva Cantele a.k.a. Phill Reynolds in un quartiere défavorisée a Padova, fine luglio [qui https://www.youtube.com/watch?v=0IW_WG25YtM una scheggia dimostrativa]. Ho abitato proprio lì vicino per quasi dieci anni, solo qualche strada più in là verso la stazione dei treni, e per i trent’anni precedenti a Mestre – una periferia anonima e qualsiasi grigioscura di rassegnazione e avvelenata di cemento armato, asfalto e smog. L’Arcella è uno di quei posti lontani dalle passeggiate delle domeniche perbene che i quotidiani e le televisioni locali raccontano sempre e soltanto in termini di disagio, malessere, maleducazione e insofferenza, eppure c’è parecchia gente intorno che smette presto di guardare i telefonini chiacchierare e bere birra, si avvicina e ascolta con attenzione. Questa sera Silva presenta “A ride”, il nuovo lavoro appena pubblicato: storie di strada, di fuga, di sbarre, di pioggia dura che cade. Usa la chitarra come se imbracciasse un fucile, lei ricambia le sue carezze muorendogli d’amore tra le mani. Ogni tanto la maltratta (per il bis la prende a schiaffi ottenendo in cambio una “Ring of fire” da urlo), ci annoda sopra arpeggi irregolari e urgenti e scattosi. Lo so bene che bestemmio, e chissenefrega, ma stasera mi sembra proprio come Johnny Cash quella volta a Folsom o a San Quentin per i carcerati – una rasoiata ogni rima, un calcio sui coglioni ogni strofa, ogni ritornello un chiodo che ti striscia sulla schiena e si conficca fra le costole.

– il concerto dei Caged al CS Brigata di Imola, maggio. Stavamo mangiando allo stesso tavolo – figuriamoci, io avevo appena conosciuto Serena la batterista ma stavamo parlando di tutt’altro, mezz’ora prima manco sapevo che con quegli altri ci suonasse insieme. Si chiacchiera, loro tutti belle facce, svegli, bravi, simpatici. Una compagnia piacevole in un posto accogliente e che funziona bene – cosa chiedere di più. Al nostro tavolo si aggiungono altre ragazze e ragazzi. Tanti auguri a Berto il tecnico tuttofare – torta di compleanno a sorpresa, si fa un pezzetto ciascuno. Neanche due minuti dopo tocca a loro. Attaccano – e nel senso guerresco e incendiario della parola. Cazzo, che impatto: decisi, precisi, martellanti e determinati – tengono il livello della tensione sempre molto alto proprio come voglio io nei miei desideri sonori più sporchi. Un torrente di lava che brucia tutto, che travolge e butta giù tutto ma che lascia dietro sé terreno nuovo e vivo. A fine concerto mi fiondo a ringraziarli mostrando tutto il mio stupore e la mia ammirazione, loro sorridono e il cantante si schermisce e mi chiede scusa perché è sudato.

– il fumetto “Our true colors” di Gengoroh Tagame, tradotto in italiano e pubblicato da Panini a giugno [sito ufficiale qui www.tagame.org, ma non cliccateci sopra se siete impressionabili]. Alcune cose del medesimo autore le trovate tradotte in inglese, francese e spagnolo nei formati per e-book. In italiano c’è poco o niente: nelle librerie più fornite e online ci sono soltanto quest’ultima opera e il precedente volume “Il marito di mio fratello” (2017), pubblicato sempre da Panini. Va anche detto che questi bara non sono cose da leggere disinvoltamente in treno o nella sala d’aspetto del medico di base, per cui capisco quanto sia difficile prodigarsi a diffondere i lavori di questo mitico disegnatore giapponese. Quarant’anni di carriera che lo hanno fatto divenire un riferimento internazionale. Cazzi e culi spremuti dentro a dozzine di storie esplicite, ciascuna un vero e proprio monumento grafico alla sopraffazione, storie d’amore passate attraverso un distorsore dentro alle quali come minimo ci si pesta duro e ci si fa male – “The house of brutes” e “The silver flower” le più drammatiche. Nei lavori più recenti di Tagame attraverso le tavole i gemiti e i fluidi corporei si fa però largo spazio a sentimenti, ragionamenti e condivisione. Dove ne “Il marito di mio fratello” il centro della riflessione è una ridiscussione della forma e della funzione sociale della struttura familiare, in “Our colors” ci si concentra sulle difficoltà e le fragilità dell’adolescenza e sul processo lento e delicato di costruzione dell’identità. Trovo siano entrambi dei libri da far leggere ai ragazzini, anzi che siano libri da leggere assieme ai ragazzini essendo disposti ad affrontare domande spinose e a dare risposte guardandoli in faccia. Libri che accendono arcobaleni in cielo e nel cuore, e migliorano questo mondo.

– i Nêuvegramme che suonano al Raindogs di Savona, metà giugno. Sì d’accordo il loro disco nuovo “L’inesausta tensione” è breve ma ben fatto e ben strutturato, suoni curati e parecchia attenzione ai dettagli – un’autoproduzione a cinque stelle. Ma ciò che esce e soprattutto ciò che mi resta dentro da questa performance è davvero tutt’altra cosa, non so se riesco a prenderne le misure. Il concerto è complicato e stupefacente e mi accende in testa tanti pensieri e altrettanti ricordi. Mi piace che dal palco non facciano prediche né promesse. Diversamente da quanto facevamo noi una volta, incontro sempre più spesso dei giovani musicisti che si impegnano a studiare, a leggere, ad esercitarsi, a conoscere, a ragionare prima di salire su un palco o di mettersi a registrare. A cose così noi allora generalmente non ci si pensava, tutti quei nostri discorsi sulla spontaneità e sull’improvvisazione che così spesso erano solo maschere appiccicate alla faccia della nostra inadeguatezza. Penso che se i Nêuvegramme ci fossero stati quarant’anni fa avrebbero polverizzato la scena, e forse proprio per questa ragione credo sia meglio se ne stiano a suonare le loro cose in quest’oggi, in questo presente, forse in qualche modo vagamente debitori al punk di allora ma culturalmente lontanissimi dai sedicenti combattenti del passato – guarda che fine di merda hanno (…abbiamo) fatto. Penso che la musica nuova per mantenersi viva e diffondere amore e ispirazione debba tenersi lontana anche dalle corse dei cani e dai raduni dove si arriva a conquistare un quarto d’ora sotto i riflettori giocando sporco al massacro contro altri ragazzi che hanno la sola colpa di condividere i tuoi stessi desideri. E penso anche che questo sia il più bel concerto a cui ho assistito quest’anno (facciamo a pari merito con i canadesi Godspeed You Black Emperor a Bologna a ottobre, dai).

– “Designing riots”, rivista illustrata per canaglie, tre numeri usciti fra febbraio e settembre. Formato tascabile, tutti belli da guardare e molto istruttivi da leggere – estrapolo una frase a caso: “Usa la tua creatività: i nostri nemici sono privi di fantasia, prevedibili, reagiscono in modo meccanico e di fronte alla novità sono spesso impreparati…”. Sembrano le note che farcivano uno qualsiasi degli ultimi dischi dei Crass, periodo Stop the City – al tempo si pensava diffusamente che rispetto all’hc americano muscoloso e palle in mostra quei poveri hippies vegetariani fossero sbiaditi e patetici, ma quello che i Crass urlavano si è poi rivelato essere il nostro presente e la nostra normalità merdosa di questi anni. Poche pagine ogni numero, una quarantina, che dire dense di ispirazione è riduttivo. Ognuna un manuale di istruzioni per come muoversi per le strade in consapevolezza e in sicurezza che potrebbe tornare utile e, metti che succeda un’altra Diaz, rivelarsi prezioso in uno qualsiasi di questi giorni di governo nuovo.

– il film “Margini” diretto da Niccolò Falsetti, uscito in sala a settembre [qui https://www.youtube.com/watch?v=LZUVlzIPltY il trailer ufficiale]. Raccontata con le parole che ci abitano abitualmente in bocca, è la storia di quando i sogni sono troppo grandi per essere compresi dalla realtà delle cose, dalla cosiddetta normalità. Eppure senza sogni, soprattutto senza grandi sogni, la vita non va avanti – è che a un certo punto tanti smettono e si chiudono in casa, ordinano pizze e sushi che qualcuno gli porta in cambio di uno scontrino e di un’elemosina, e sprecano ore di vita fra TikTok e YouTube. Per farla breve e senza spoilerare troppo il film racconta la storia di tre amici che suonano in un gruppo e si sbattono per restare a galla dentro a una provincia immobile. La musica è il collante che tiene insieme loro e l’intera loro rete di relazioni e di amori, tutti bellissimi e tutti disperati. Sembra che anneghino nella sfiga, in verità stanno conquistando la loro vita colpo su colpo finendo ciascuno col piantare una bandiera nera a sventolare sulla vetta. “Margini” racconta cose che sono successe spesso e ovunque, e ridotte presto al silenzio e all’oblio, già da poco dopo la metà degli anni Ottanta in una qualsiasi periferia occidentale. E’ proprio vero: per certi sogni smisurati qui fuori, qui nel mondo dove finiscono le pacchie, non c’è affatto posto.

Mi aggancio a quest’ultimo pezzo. La cosa più bella di quest’anno me l’hanno regalata dei miei vecchi compagni. Nel corso del 2021 avevo curato un libro/cd/dvd dei Kina, che poi nel 2022 abbiamo presentato e discusso in giro: ecco, girare a fare presentazioni e proiezioni con Gianpiero e Sergio e gli altri mi ha restituito quello che la sfortuna tanti anni fa mi aveva portato via. Col pretesto di questi incontri ho avvicinato ragazze e ragazzi meravigliosi che si fanno un culo della madonna per mantenere aperti e puliti e funzionanti degli spazi liberi. Quando avevo vent’anni dai palchi volevano convincermi che il futuro non ci fosse più: era gente già ricca che voleva anche i miei soldi, era gente grigia e spenta che voleva i miei sogni, era gente già morta che voleva la mia giovinezza. Non gli ho creduto affatto, perché pensavo che il mio futuro dipendesse per grande parte da me, ed è bellissimo rendersi conto oggi a 65 anni suonati (ma non è stata una scoperta tardiva, quanto una serie di conferme giunte nel corso del tempo) che valeva la pena non arrendersi e sbattersi e lottare, e che non ho affatto finito di imparare, di conoscere, di avvicinare, scambiare, migliorare. Grazie a tutti voi che mi state allungando e rendendo così dolce e interessante la vita. Dico a voi. Siete voi il futuro, adesso. Guardatevi, come siete belli.

Ostrega, sono quattordici. Non vale. Grazie per avermi ancora fatto posto qui. Grazie tantissime.

Marco Pandin
stella_nera@tin.it

La mia non classifica musicale del 2022

Sono giunto alla fine del 2022 e ho scritto la mia Non classifica musicale del 2022. È stato un anno difficile da vivere, specialmente per le scelte illiberali, che ho subito, ma non sono mai stato solo. Sicuramente la musica mi ha accompagnato, ascoltando dischi nuovi o riscoprendo musiche del passato. Devo ringraziare sia la mia compagna che è sempre stata consapevole e battagliera, che i miei figli. Non posso scordare il resto della famiglia naturale e quella allargata di alcuni amici: siamo stati tutti uniti. Qualcuno si è perso per strada, ma chi se ne fotte, d’altronde c’è una strofa di Faber che è significativa: “… in direzione ostinata e contraria…” Sono riuscito a recuperare dei biglietti di concerti rimandati dal 2020 e sono stati tutti eccezionali: Pearl Jam, Beck e altri come i Bauhaus, Gorrilaz, Idles, Niccolò Fabi, Nada e il mio amatissimo Massimo Zamboni. Dai, finalmente essere ad un concerto dal “vero”, dal “vivo”. Non posso non ricordare Giuseppe del blog Una volta ho suonato il sassofono e il gruppo di amici musicofili del suo canale Telegram Ubu Dance Party, vale la pena esplorarlo e unirsi al canale.

Big Thief – Dragon New Warm Mountain I Believe In You

Traccia d’ascolto

Francesco Benozzo e Fabio Bonvicini – Cronache da un Naufragio

Traccia d’ascolto

Breathless – See Those Colours Fly

Traccia d’ascolto

Fontaines D. C. – Skinty Fia

Traccia d’ascolto

OFF! Free LSD

Traccia d’ascolto

Starlight Assembly – Starlight and Sill Air

Traccia d’ascolto

Massimo Zamboni – La Mia Patria Attuale

Traccia d’ascolto

Voi che ne pensate?

Se poi volete ascoltare la mia non classifica musicale di quest’anno, ho preparato una lista. Prima di tutti gli altri brani metto “L’anno del Grande Inganno” di Francesco Benozzo e Fabio Bonvicini, non essendo presente ad oggi sulla nota piattaforma d’ascolto musicale. Per informazioni potete rivolgervi a: stella*nera.

La mia non classifica musicale annuale degli anni scorsi è qui.

The Cramps – Gravest Hits 1979

The Cramps - Gravest Hits 1979

The Cramps sono un gruppo musicale che suona un Rock’n’Roll rallentato ed assassino, ma che al momento giusto si velocizza e prende una potenza inesorabile. Due chitarre, una batteria e una voce, che rappresenta l’anima tormentata e giocosa (a suo modo) del cantante Lux Interior, un vero animale da palcoscenico. Divertenti, selvaggi, provocanti e conturbanti specialmente la chitarrista Poison Ivy, hanno sempre vissuto, suonando Rock’n’Roll nel modo più viscerale.

Gravest Hits uscì nel 1979 ed è un mini LP (per la precisione un EP). Cinque canzoni tirate e distorte, come se fossero risuscitate dagli anni’50, ma aumentate nella velocità d’esecuzione. Al tempo pensavo che il Rock’n’Roll fosse carino, ma questi dannati musicisti hanno ricreato il genere, con un immaginario da film dell’orrore di serie B, in cui non mancano mostri, sesso e tanta musica.

The Cramps – Human Fly (live 1981)

Le voci delle balene registrate da Roger Payne

Balene Megattere: le voci registrate da Roger Payne

Il dottor Roger Searle Payne (29 gennaio 1935) è un biologo e ambientalista statunitense, noto per la scoperta, avvenuta nel 1967 (con Scott McVay e Katharine Boynton), del canto delle megattere, fra i più famosi cetacei marini. Payne è diventato un attivista importante nella campagna mondiale per la salvaguardia delle balene e per mettere un freno alla caccia commerciale di questi splendidi abitanti del mare. Il biologo, ascoltando dei nastri d’archivio della marina militare statunitense, resta colpito dalla raccolta di questo “canzoniere” dei maschi di megattere. Sono delle vere e proprie canzoni, dalla lunghezza variabile, composte da “voci” che si ripetono seguendo degli schemi ritmici. Di volta in volta, il repertorio mantiene caratteristiche comuni, ma ogni traccia è singolare e si differenzia dalle altre. Nel 1970 fu pubblicato “Songs of the Humpback Whale“, che era ed è un esperienza sonora naturale incredibile. Quando lo ascolto mi perdo nel sentire le voci delle megattere, i loro gorgoglii, assieme alle bollicine d’aria che salgono. Mi auguro il meglio per questi cetacei, cittadini dei mari.

Dr. Roger S. Payne
Roger S. Payne

Riferimenti