Cose belle del 2022 di Marco Pandin

Marco Pandin mi ha scritto le 13 cose belle del 2022. Sono sempre preziose per me, sono un bel regalo ed un appuntamento per rinnovare l’affetto e l’amicizia che ci lega. Penso siano importanti ed interessanti da leggere, del resto come quelle del 2021. Buona lettura, visione ed ascolto.

13 cose belle di Marco Pandin

Tredici cose belle del 2022.

Libri riviste dischi concerti incontri in ordine sparso, forse in ordine di temperatura. Tredici perché questo numero accende la superstizione.

– L’album “Solace” dell’irlandese Patrick Dexter, uscito in primavera. Musica immaginata e offerta da tutt’altro punto di vista [qui https://www.youtube.com/watch?v=YVDlIaRagCI un assaggio]. Registrata all’aperto verosimilmente lontano dalla città, nei microfoni entrano il violoncello e il fruscio disturbante dei ragionamenti a proposito della pandemia, ma anche il respiro del musicista e quello dello strumento, e l’aria che si sposta, e il canto degli uccelli, gli insetti curiosi che si avvicinano ai microfoni, le foglie sugli alberi e il va e vieni delle nuvole sullo sfondo. Manca solo il cane dei vicini, ma potrebbe anche esserci e non ci si fa proprio caso. Fa sorridere e insieme riflettere che venga pubblicato oggi un disco immaginato e realizzato in questo modo biologico e naturale e pacifico dopo decenni di battaglie sanguinose per conquistare artificialmente in studio il silenzio su cui costruire e far risaltare il suono nella sua purezza più glaciale. Ma così sembra tutto più caldo ed umano, e attraverso le orecchie senti il sole che ti entra sotto la pelle, e con lui in punta di piedi entrano tutto il verde dell’erba e l’azzurro del cielo e i sussurri delle api a risvegliare ogni amore di ogni bestia che tieni nascosta dentro. Addormentarsi in compagnia di questo disco è bellissimo. Lasciatelo proseguire, perché risvegliarsi mentre suona questo disco è, se possibile, ancora più bello ed appagante.

Toni Bruna che a mezzanotte canta e suona e racconta storie davanti al teatro Miela di Trieste, metà marzo. Al suo concerto quella sera erano rimaste fuori parecchie persone senza biglietto e senza green pass – e non era giusto. Così a un certo punto ha detto due parole, ha abbandonato il palco e la sala e si è messo lì fuori a fare il busker, davanti a cento e più anime in fiamme nonostante il borino. Cosa vi posso dire io di quelle sue canzoni di confine, che raccontano di gente rimasta sola e di posti rimasti soli senza la gente. Così esili, fatte d’acqua e d’aria, così leggere ad attraversare in volo le nostre discussioni e ragionamenti, i campi di grano e di battaglia, nazioni in conflitto e conflitti televisivi, le dogane, i cimiteri, il mare. Sono canzoni di costituzione fragile, che sembrano poco adatte a cantare di resistenze e rivoluzioni, eppure ciascuna si rivela come un modo diverso e inedito di parlare d’amore. Gli chiedo come fa, lui dice che le parole gli escono fuori così e non sa come mai. Adoro come fa strisciare le dita sulle corde della chitarra quando cambia gli accordi: è proprio lo stesso rumore che ho dentro in testa ogni volta che cambio idea, quando mi nasce un’idea nuova.

– l’album “Afrikan culture” di Shabaka Hutchings, uscito poco prima dell’estate, è uno di quei dischi che ti alzano di un metro o due da terra e ti lasciano là. All’inizio sembra quasi che si siano sbagliati e che dentro la copertina sia finito un disco di Stephan Micus. L’ha pubblicato una major, forse si saranno sbagliati anche loro – avranno creduto fosse jazz da vendere ai bancari. Nei negozi lo vendono ai bancari come jazz. E invece dentro ci sono i leoni, le terre perse, le schegge della mezzanotte, le barene dove non sei in terra né in acqua, i posti inesplorati che stanno dopo l’ultima fermata dell’autobus. Un continente intero di suggestioni compresso in una mezz’ora scarsa. Un’eruzione esplosiva di spiriti e presenze, migliaia e migliaia di metri cubi di rovente ispirazione ancestrale rilasciati nell’atmosfera. Tutt’altro che un documentario, una mappa o una profezia, o forse le tre cose insieme. Sono andato a rileggermi Iosif Brodskij che raccontava la precarietà dell’equilibrio e l’allarme dei sensi durante un viaggio in vaporetto, lui abituato com’era alla terraferma e al freddo. Un lavoro di una bellezza sconfinata e irraccontabile questo di Hutchings – e infatti è un po’ che sono qui che scrivo e cancello e riscrivo e cancello ancora queste ultime due tre righe senza trovare niente che si avvicini alle onde alte che mi si agitano nello stomaco e dietro gli occhi. Se esistono gli dei, li trovi sui vaporetti verso Castello e hanno di certo questo disco piazzato in loop perpetuo dentro i loro walkman.

– le ultime poesie di Gregory Corso, raccolte in “The golden dot” e stampate da Lithic Press in agosto [info e richieste qui www.lithicpress.com]. Molte sono senza titolo, solo la prima è al suo posto e forse anche la seconda mentre tutte le altre sono in ordine casuale – come voleva lui. Sono un viaggio che si trascina dentro gli anni che seguono la morte del suo amico e mentore Allen Ginsberg, viaggio tormentato dalla depressione e da reiterati disastri di salute e che si chiude con la morte di Corso avvenuta nel gennaio del millennio nuovo che lui desiderava fortemente toccare con le dita. Figlio di due minorenni poverissimi di origine italiana e presto abbandonato, aveva passato l’infanzia tra orfanotrofi e affidamenti temporanei, e l’adolescenza tra la strada e il riformatorio. E’ finito dietro le sbarre a diciassette anni per aver rubato di che vestirsi – messa così somiglia a una storia di quelle che raccontano in chiesa. E’ nella biblioteca del carcere che Gregory trova ispirazione e riscatto, i suoi compagni di prigionia sono i suoi angeli. Nel libro i curatori spiegano perché ci siano voluti vent’anni per pubblicare queste righe preziose. Corso è uno dei miei poeti preferiti. Nell’estate del 1980 ho avuto la fortuna e il privilegio di assistere a una sua breve lettura: indossava la divisa dello sbruffone, ma nascosto sotto c’era uno spirito sensibile che continuava a meravigliarsi della sua popolarità, e a temerla – come temeva la solitudine.

– il docufilm “Po” di Andrea Segre e Gian Antonio Stella uscito nelle sale a marzo [qui https://www.youtube.com/watch?v=FT4tyi9H7g8 un estratto]. Un’ora e mezza di accelerazioni e strattoni del cuore durante la quale ho messo a confronto le immagini che mi scorrevano dinanzi con i racconti dei miei genitori e dei miei nonni. Storie di quando non ero ancora nato, successe per davvero solamente qualche anno prima dal mio arrivo e che però ho sempre immaginato leggende da chissà quale passato remoto, il tutto filtrato attraverso la mia esperienza piccola – l’acqua granda del 1966 che ancora ricordo distintamente. Sono le storie minime tipiche della gente povera, fatte di roba poco consistente come schegge, calcinacci, segni sui muri, attimi, polvere, gocce, illusioni, e qualche cosa grossa che non si dimentica come la condivisione, la speranza, le parole che guariscono e il sostegno reciproco. Storie dove a volte basta solo un sorriso per squarciare la nebbia più nera e alleggerire il carico grave della miseria. Il documentario racconta una cosa importante, che è poi la stessa che aveva insegnato il grande vecchio Mario Rigoni Stern: è solo soffermandosi ad ascoltare e raccogliere tutte le piccole storie che la Storia può meritarsi un’iniziale maiuscola orgogliosa e fiera e che perdura. Poi però nei libri va a finire quell’altra, quella che insegnano a brandelli nelle scuole e omogeneizzata dentro le televisioni e che io scrivo apposta in minuscolo: storia che ha la stessa voce del padrone e viene descritta invariabilmente da quelli che hanno imparato a scrivere sotto la dettatura feroce di chi ha vinto.

– Tiziano Sgarbi che canta in una piccola corte giù sotto casa prima di un suo amico olandese, ai primi di giugno. Senza amplificazione, senza microfono, senza segreti e senza mi cantino. Non lo vedevo da un po’, da quando si faceva chiamare Bob Corn: quei vestiti che nascondono male la sua magrezza, il grigio dei capelli che non riesce ad annacquare la sua determinazione, la sua irrequietezza inossidabile al tempo che passa. Stiamo parlando di uno che ha impastato con le sue mani la scena indipendente del nostro paese, giusto per puntualizzare. Fa solo pochi pezzi, uno è di Will Oldham un altro non ricordo di chi. A un certo punto racconta “La mela di Odessa” e io vado in frantumi, e mentre sono là che cerco di raccogliere i pezzi da terra mi accorgo che il peso di questi anni di ciarpame new wave pop punk non è affatto riuscito a schiacciarmi. E nonostante la musica leggerissima che cola giù dalle radioline e dai telefonini del mondo intero io ritrovo respiro, e ritrovo aria, e ritrovo luce e voglia, e mi ricarico di salute, di propositi, di energia buona, di futuri possibili. Il suo amico olandese è Zea cioè Arnold De Boer cioè cazzo il cantante degli Ex – che per me significa ritrovarmi ad abbracciare quella persona che per anni mi ha tenuto per mano e sorretto mentre ero preso a non affogare nella sfiga, ma che ho solamente potuto intravedere di sfuggita dentro ai dischi. E invece di dirgli grazie e raccontargli tutto riesco solo a restarmene là col respiro sospeso, gli occhi umidi e le parole incastrate in gola.

– la performance di Path in apertura del concerto degli Ombra al Tank di Bologna, verso metà aprile. Luci basse e odore acre di disordine misto a birra spanta, come il giorno dopo un party. Eccolo che entra, lupo grigio che neanche si guarda intorno, in un attimo è già sul palco. Tiene lo sguardo raso terra sì, ma dai denti gli escono versi roventi e le parole sono pallottole. E’ così abile che neanche prende la mira: al primo pezzo ero là stordito, mi ha fatto fuori al secondo. Me li vedo già tutti quei miei amici sapienti e criticoni, quelli che si annoiano perché hanno ormai già ascoltato e capito tutto, a disquisire sulle percentuali di Woody Guthrie e di Billy Bragg dosate dentro a questa voce giovane. Voglio tanto bene a Woody e a Billy ma lasciamoli stare dove sono per carità, per me è Path e basta. Path che canta quelle sue canzoni arruffate e con poca speranza dentro cui ho ritrovato un pezzo di me, ed è un pezzo che sanguina forte: mi guarda fisso negli occhi e non sorride affatto.

– il libro “La Resistenza in 100 canti” curato da Alessio Lega uscito ad aprile [cercatelo qui www.mimesisedizioni.it oppure qui www.alessiolega.it]. Duecentocinquanta pagine abbondanti. Un mattone, e bello pesante, che può venire utile: prendendo con attenzione la mira lo si può scagliare contro le finestre pulite dei palazzi di chi comanda. Il mio caro amico e fratello e compagno salentino ha raccolto una serie di scritti commoventi, offrendo per ciascuna canzone una bella storia che ha per protagonisti ragazze e ragazzi disposti a sacrificare sé stessi e il loro futuro piuttosto che vivere senza libertà. E sono storie vere, pensate: c’è gente che si è addirittura fatta ammazzare per permettere a me e a voi di cantare. Lo si dovrebbe far circolare nelle scuole per educare i bambini alla solidarietà e alla gentilezza, e invece è un libro che davvero non ha posto in questo paese di sottosegretari e memorie tagliate corte.

– il concerto di Silva Cantele a.k.a. Phill Reynolds in un quartiere défavorisée a Padova, fine luglio [qui https://www.youtube.com/watch?v=0IW_WG25YtM una scheggia dimostrativa]. Ho abitato proprio lì vicino per quasi dieci anni, solo qualche strada più in là verso la stazione dei treni, e per i trent’anni precedenti a Mestre – una periferia anonima e qualsiasi grigioscura di rassegnazione e avvelenata di cemento armato, asfalto e smog. L’Arcella è uno di quei posti lontani dalle passeggiate delle domeniche perbene che i quotidiani e le televisioni locali raccontano sempre e soltanto in termini di disagio, malessere, maleducazione e insofferenza, eppure c’è parecchia gente intorno che smette presto di guardare i telefonini chiacchierare e bere birra, si avvicina e ascolta con attenzione. Questa sera Silva presenta “A ride”, il nuovo lavoro appena pubblicato: storie di strada, di fuga, di sbarre, di pioggia dura che cade. Usa la chitarra come se imbracciasse un fucile, lei ricambia le sue carezze muorendogli d’amore tra le mani. Ogni tanto la maltratta (per il bis la prende a schiaffi ottenendo in cambio una “Ring of fire” da urlo), ci annoda sopra arpeggi irregolari e urgenti e scattosi. Lo so bene che bestemmio, e chissenefrega, ma stasera mi sembra proprio come Johnny Cash quella volta a Folsom o a San Quentin per i carcerati – una rasoiata ogni rima, un calcio sui coglioni ogni strofa, ogni ritornello un chiodo che ti striscia sulla schiena e si conficca fra le costole.

– il concerto dei Caged al CS Brigata di Imola, maggio. Stavamo mangiando allo stesso tavolo – figuriamoci, io avevo appena conosciuto Serena la batterista ma stavamo parlando di tutt’altro, mezz’ora prima manco sapevo che con quegli altri ci suonasse insieme. Si chiacchiera, loro tutti belle facce, svegli, bravi, simpatici. Una compagnia piacevole in un posto accogliente e che funziona bene – cosa chiedere di più. Al nostro tavolo si aggiungono altre ragazze e ragazzi. Tanti auguri a Berto il tecnico tuttofare – torta di compleanno a sorpresa, si fa un pezzetto ciascuno. Neanche due minuti dopo tocca a loro. Attaccano – e nel senso guerresco e incendiario della parola. Cazzo, che impatto: decisi, precisi, martellanti e determinati – tengono il livello della tensione sempre molto alto proprio come voglio io nei miei desideri sonori più sporchi. Un torrente di lava che brucia tutto, che travolge e butta giù tutto ma che lascia dietro sé terreno nuovo e vivo. A fine concerto mi fiondo a ringraziarli mostrando tutto il mio stupore e la mia ammirazione, loro sorridono e il cantante si schermisce e mi chiede scusa perché è sudato.

– il fumetto “Our true colors” di Gengoroh Tagame, tradotto in italiano e pubblicato da Panini a giugno [sito ufficiale qui www.tagame.org, ma non cliccateci sopra se siete impressionabili]. Alcune cose del medesimo autore le trovate tradotte in inglese, francese e spagnolo nei formati per e-book. In italiano c’è poco o niente: nelle librerie più fornite e online ci sono soltanto quest’ultima opera e il precedente volume “Il marito di mio fratello” (2017), pubblicato sempre da Panini. Va anche detto che questi bara non sono cose da leggere disinvoltamente in treno o nella sala d’aspetto del medico di base, per cui capisco quanto sia difficile prodigarsi a diffondere i lavori di questo mitico disegnatore giapponese. Quarant’anni di carriera che lo hanno fatto divenire un riferimento internazionale. Cazzi e culi spremuti dentro a dozzine di storie esplicite, ciascuna un vero e proprio monumento grafico alla sopraffazione, storie d’amore passate attraverso un distorsore dentro alle quali come minimo ci si pesta duro e ci si fa male – “The house of brutes” e “The silver flower” le più drammatiche. Nei lavori più recenti di Tagame attraverso le tavole i gemiti e i fluidi corporei si fa però largo spazio a sentimenti, ragionamenti e condivisione. Dove ne “Il marito di mio fratello” il centro della riflessione è una ridiscussione della forma e della funzione sociale della struttura familiare, in “Our colors” ci si concentra sulle difficoltà e le fragilità dell’adolescenza e sul processo lento e delicato di costruzione dell’identità. Trovo siano entrambi dei libri da far leggere ai ragazzini, anzi che siano libri da leggere assieme ai ragazzini essendo disposti ad affrontare domande spinose e a dare risposte guardandoli in faccia. Libri che accendono arcobaleni in cielo e nel cuore, e migliorano questo mondo.

– i Nêuvegramme che suonano al Raindogs di Savona, metà giugno. Sì d’accordo il loro disco nuovo “L’inesausta tensione” è breve ma ben fatto e ben strutturato, suoni curati e parecchia attenzione ai dettagli – un’autoproduzione a cinque stelle. Ma ciò che esce e soprattutto ciò che mi resta dentro da questa performance è davvero tutt’altra cosa, non so se riesco a prenderne le misure. Il concerto è complicato e stupefacente e mi accende in testa tanti pensieri e altrettanti ricordi. Mi piace che dal palco non facciano prediche né promesse. Diversamente da quanto facevamo noi una volta, incontro sempre più spesso dei giovani musicisti che si impegnano a studiare, a leggere, ad esercitarsi, a conoscere, a ragionare prima di salire su un palco o di mettersi a registrare. A cose così noi allora generalmente non ci si pensava, tutti quei nostri discorsi sulla spontaneità e sull’improvvisazione che così spesso erano solo maschere appiccicate alla faccia della nostra inadeguatezza. Penso che se i Nêuvegramme ci fossero stati quarant’anni fa avrebbero polverizzato la scena, e forse proprio per questa ragione credo sia meglio se ne stiano a suonare le loro cose in quest’oggi, in questo presente, forse in qualche modo vagamente debitori al punk di allora ma culturalmente lontanissimi dai sedicenti combattenti del passato – guarda che fine di merda hanno (…abbiamo) fatto. Penso che la musica nuova per mantenersi viva e diffondere amore e ispirazione debba tenersi lontana anche dalle corse dei cani e dai raduni dove si arriva a conquistare un quarto d’ora sotto i riflettori giocando sporco al massacro contro altri ragazzi che hanno la sola colpa di condividere i tuoi stessi desideri. E penso anche che questo sia il più bel concerto a cui ho assistito quest’anno (facciamo a pari merito con i canadesi Godspeed You Black Emperor a Bologna a ottobre, dai).

– “Designing riots”, rivista illustrata per canaglie, tre numeri usciti fra febbraio e settembre. Formato tascabile, tutti belli da guardare e molto istruttivi da leggere – estrapolo una frase a caso: “Usa la tua creatività: i nostri nemici sono privi di fantasia, prevedibili, reagiscono in modo meccanico e di fronte alla novità sono spesso impreparati…”. Sembrano le note che farcivano uno qualsiasi degli ultimi dischi dei Crass, periodo Stop the City – al tempo si pensava diffusamente che rispetto all’hc americano muscoloso e palle in mostra quei poveri hippies vegetariani fossero sbiaditi e patetici, ma quello che i Crass urlavano si è poi rivelato essere il nostro presente e la nostra normalità merdosa di questi anni. Poche pagine ogni numero, una quarantina, che dire dense di ispirazione è riduttivo. Ognuna un manuale di istruzioni per come muoversi per le strade in consapevolezza e in sicurezza che potrebbe tornare utile e, metti che succeda un’altra Diaz, rivelarsi prezioso in uno qualsiasi di questi giorni di governo nuovo.

– il film “Margini” diretto da Niccolò Falsetti, uscito in sala a settembre [qui https://www.youtube.com/watch?v=LZUVlzIPltY il trailer ufficiale]. Raccontata con le parole che ci abitano abitualmente in bocca, è la storia di quando i sogni sono troppo grandi per essere compresi dalla realtà delle cose, dalla cosiddetta normalità. Eppure senza sogni, soprattutto senza grandi sogni, la vita non va avanti – è che a un certo punto tanti smettono e si chiudono in casa, ordinano pizze e sushi che qualcuno gli porta in cambio di uno scontrino e di un’elemosina, e sprecano ore di vita fra TikTok e YouTube. Per farla breve e senza spoilerare troppo il film racconta la storia di tre amici che suonano in un gruppo e si sbattono per restare a galla dentro a una provincia immobile. La musica è il collante che tiene insieme loro e l’intera loro rete di relazioni e di amori, tutti bellissimi e tutti disperati. Sembra che anneghino nella sfiga, in verità stanno conquistando la loro vita colpo su colpo finendo ciascuno col piantare una bandiera nera a sventolare sulla vetta. “Margini” racconta cose che sono successe spesso e ovunque, e ridotte presto al silenzio e all’oblio, già da poco dopo la metà degli anni Ottanta in una qualsiasi periferia occidentale. E’ proprio vero: per certi sogni smisurati qui fuori, qui nel mondo dove finiscono le pacchie, non c’è affatto posto.

Mi aggancio a quest’ultimo pezzo. La cosa più bella di quest’anno me l’hanno regalata dei miei vecchi compagni. Nel corso del 2021 avevo curato un libro/cd/dvd dei Kina, che poi nel 2022 abbiamo presentato e discusso in giro: ecco, girare a fare presentazioni e proiezioni con Gianpiero e Sergio e gli altri mi ha restituito quello che la sfortuna tanti anni fa mi aveva portato via. Col pretesto di questi incontri ho avvicinato ragazze e ragazzi meravigliosi che si fanno un culo della madonna per mantenere aperti e puliti e funzionanti degli spazi liberi. Quando avevo vent’anni dai palchi volevano convincermi che il futuro non ci fosse più: era gente già ricca che voleva anche i miei soldi, era gente grigia e spenta che voleva i miei sogni, era gente già morta che voleva la mia giovinezza. Non gli ho creduto affatto, perché pensavo che il mio futuro dipendesse per grande parte da me, ed è bellissimo rendersi conto oggi a 65 anni suonati (ma non è stata una scoperta tardiva, quanto una serie di conferme giunte nel corso del tempo) che valeva la pena non arrendersi e sbattersi e lottare, e che non ho affatto finito di imparare, di conoscere, di avvicinare, scambiare, migliorare. Grazie a tutti voi che mi state allungando e rendendo così dolce e interessante la vita. Dico a voi. Siete voi il futuro, adesso. Guardatevi, come siete belli.

Ostrega, sono quattordici. Non vale. Grazie per avermi ancora fatto posto qui. Grazie tantissime.

Marco Pandin
stella_nera@tin.it

Cose belle del 2021 di Marco Pandin

Le cose belle del 2021 di Marco Pandin

Pochi giorni fa, abbiamo scambiato qualche parola con l’amico Marco Pandin di stella * nera. Si scherzava sulla mia Non classifica musicale 2021. Marco mi diceva che è da tempo memorabile che vorrebbe farne una alla fine di ogni anno… e quest’anno eccola! L’ho trovata interessante e sorprendente, non solo per i contenuti musicali, ma anche per le pubblicazioni editoriali. Buone letture ed ascolti!

Cose belle del 2021 (in ordine sparso e partigiano)

– gli articoli di Alessandro Kola sul sito di Radio Città Aperta – Neurotic vibes neurotic minds (www.radiocittaperta.it/cat/musica). Scritti bene, con attenzione e rispetto, mettendoci impegno, la giusta serietà e una bella fetta grossa di cuore. Si capisce presto che Alessandro è troppo giovane per aver vissuto gli anni Ottanta e i fatti che si prende la briga di raccontare, ma immediatamente dopo ti accorgi che questo non è un problema. Perché lui è uno che ci crede – molto di più di tanti che una volta, microfono e/o megafono in mano, dichiaravano ad alta voce di farlo e invece erano fabbriche tossiche di risentimento e di rancore.

– il libro di Laura Carroli sui Raf Punk (www.agenziax.it/schiavi-nella-citta-piu-libera-del-mondo). Un’isola a sé, che non c’entra un cazzo col resto delle memorie di maschietti borchiati & invecchiati uscite al supermercato in questi 20/25 anni – ciascuna una lapide sulla tomba del punk biancorossoeverde. Laura racconta di sé, dei suoi dubbi, delle incertezze, delle paure da scavalcare, dei tentativi, delle difficoltà. Nel libro lei è bella come la luna e terribile come un esercito schierato (citazione colta). Guarda come e dove sono finiti quelli che di dubbi non ne avevano: assessori, sindaci, portaborse, intermediari e ruffiani, padroni di cani, faccendieri, presidenti di qualunque cosa, addirittura predicatori, persino cantanti. Una volta stavano a tuonare e scorreggiare dentro le fanzine, oggi a mostrare il lavoro del dentista dentro ai giornali che ti danno quando sei in coda dalla parrucchiera.

– il concerto dei Crancy Crock (www.crancycrock.it) all’Anarchist Bookfair messa in piedi dal circolo Underground un sabato di metà dicembre, al Bafo di Seriate BG. Hanno piazzato il banchetto proprio vicino a quello di stella*nera, sembrano simpatici e dopo un po’ scopro che hanno già autoprodotto 4 o 5 cd e io neanche sospettavo esistessero – sono un pozzo di ignoranza, lo so e non c’è rimedio. Tocca a loro. Il tempo di ficcare il jack nell’amplificatore e guardarsi in faccia, un attimo di vuoto e i cinque attaccano a pestare duro. Sembra un frullato padano e gioioso di UK Subs e Stiff Little Fingers e quello-che-volete-voi che spazza via con un sorriso tutta la merda di questi quarant’anni. Mi sono divertito come una bestia – ed era ora, cazzo.

– il concerto in streaming gratuito del 27 marzo con cui i Godspeed You Black Emperor (cstrecords.com/pages/godspeed-you-black-emperor) hanno presentato in anteprima il nuovo album “G_d’s Pee at state’s end“, uscito la settimana successiva. Le telecamere non erano puntate sui musicisti ma indietro, al fondo del palco, sul lavoro cinematografico di Karl Lemieux e Philippe Leonard che accompagna abitualmente le loro performance. Un monumento sonoro in un cinema deserto. Questa per me è la speranza con un vestito nero che le sta addosso bene. E’ musica che mi trivella in profondità.

– la maglietta dei Kina disegnata da Chiara Gattuso (chiaragattuso.it) e stampata benissimo da Rox in occasione dell’uscita del cd con le registrazioni del reunion tour 2019. Non aggiungo commenti perché potrebbe sembrare un’autopromozione.

– il nuovo libro di Paolo Cognetti “La felicità del lupo” (il blog paolocognetti.blogspot.com non appare aggiornato da tempo, purtroppo). Lui mette insieme le parole in un modo che ti strappa il respiro dalla gola. Pensavo che il suo ottomila fosse stato “Le otto montagne”. E invece poi ha scritto “Senza mai arrivare in cima” e adesso quest’altro che mi lasciano seduto per terra in mezzo al bosco. Mi sembra di essere come quella volta Oliver Sachs in Norvegia: gamba rotta, telefonino che non prende, arriva sera e io che però non ho paura.

– il film di Sophie Deraspe “Antigone” (official trailer al link: www.youtube.com/watch?v=3fFG0wYyR0Q), è del 2019 ma in Italia è uscito solo a novembre. Una storia senza vie d’uscita fatta di violenza, morte, ingiustizia e sopraffazione. Una storia già scritta duemilacinquecento anni fa ma che accade oggi: a cinque minuti dall’inizio cominci a ripeterti come un mantra che è un film, che non è vero, che è solo un film, che non può essere vero. La storia si interrompe malamente, si accendono le luci in sala e tu annaspi verso l’uscita dal cinema, fai finta di niente, ti aggiusti la mascherina, torni a casa, ti prepari qualcosa da mangiare e dopo un po’ ti sembra tutto come prima. Poi d’improvviso rieccola, la storia: armata di casco protettivo, sfollagente d’ordinanza, spray OC e anfibi chiodati, eccola a buttarti giù la porta di casa mentre stai dormendo.

– la ristampa di “Venezia” di Gigi Masin (store.silentes.it) – un atto d’amore, di quelli teneri e disperati. Il cd accompagnava un libro di fotografie di Stefano Gentile uscito in edizione limitata nel 2016 e presto esaurito. Quando ero ragazzo mi piaceva camminare per Venezia perché riuscivo a sentire il suono dei miei passi, come succedeva in montagna. Adesso mi piace immaginare quasi ogni calle abitata da questo suono. Gigi è una rondine venuta a fare il nido accanto alla tua finestra: l’inverno la porta via ogni anno, e lei che poi ritorna. Altro sogno in contemporanea, oppure volendo altro incubo: lungo il perenne carnevale artificiale degli itinerari turistici (la voce registrata del doge che intima: seguire le frecce gialle, please) tra la calca risuonano implacabili le Quattro Stagioni passate sotto il bisturi, lo schiacciasassi e la fiamma ossidrica di Max Richter.

– le “Memorie di un filologo complottista” scritte da Francesco Benozzo (www.francescobenozzo.net). Perché a un certo punto io nei miei dubbi mi perdo, devo tornare indietro, devo rileggere, devo scavare, devo mettere insieme i pezzi, devo capire o almeno devo provarci.

– la fanzine Miseria Nera (www.miserianera.com). Nel numero zero di scritto solo tre righe (e copiate da altrove) a pagina tre, tutto il resto sono foto b/n di Luca Benedet e Matteo Bosonetto. Ogni immagine una storia lunga, contorta, spinosa, divertente oppure nera di malinconia.

– la meravigliosa ristampa di “On the Mesa” (the-song-cave.com), una raccolta mitica uscita nel 1971 per la City Lights di Lawrence Ferlinghetti, e in versione espansa per Song Cave lo scorso marzo. Un libro di poesie beat che al tempo delle scuole superiori ho solo potuto leggere spezzettato/disperso su fogli underground e tutto intero solo in sogno. Adesso, dopo cinquant’anni e con gli occhi vecchi, posso tenerlo fra le mani e finalmente sprofondarci dentro. Ci hanno aggiunto persone e parole, e in mezzo a Richard Brautigan, Diane Di Prima, Anne Waldman, Robert Creely e tutti gli altri ritrovo un me stesso teenager spalanuvole. Sono convinto che quegli americani non immaginassero affatto che un po’ dell’aria mossa dal loro fiato giungesse dopo millemila chilometri fino alla mia stanza, ai confini dell’impero. C’è addirittura quel Jim Carroll che ho amato in versione disintossicata quand’era punk quasi come Patti Smith – ho sognato di giocarci insieme a pallacanestro, proprio io che mi muovo con l’agilità sportiva di una bestia morta.

– la “Lettera a chi non c’era” di Franco Arminio (www.bompiani.it), uscito a giugno. Il piatto rotto in copertina mi ha messo in allarme, e non ho detto niente. La nota d’avvio mi ha messo in allarme, e io non ho prestato attenzione. E anche le prime pagine mi hanno messo in allarme, e presto ho cominciato a capire perché. A ogni giro di pagina successivo mi suonavano dentro in testa la sirena dell’acqua alta e quella degli incidenti al Petrolchimico e quella dell’ambulanza che veniva a portare via mio padre di notte. Adoro quegli scrittori che ti mettono le mani addosso: ogni parola come neve che ti si appoggia sulle spalle e le carica di un peso lieve che non sai avvertire né quantificare, ogni parola goccia d’acqua che si insinua nelle tue crepe e arriva a minare i tuoi muri maestri. Mi piacerebbe incontrarlo, lui, restare ad ascoltarlo per ore e annegare in frantumi dentro a tutta l’acqua chiara che gli esce dalle labbra e dalle dita. Questo libro è magnetico e definitivo come un buco nero, mi ha scosso profondamente e faccio fatica a finirlo – dopo sei mesi oggi 1 gennaio 2022 sono arrivato, arrancando sui gomiti, solo a pagina 143.

– e facciamola, anche se di sponda, un’autopromozione. Un paio di anni fa scopro tra le pagine di Umanità Nova (umanitanova.org) una rubrica in cui l’autore, un ventenne evidentemente che si fa chiamare En-Ri.ot, cerca di annodare certi fili rossi che raccoglie seguendo l’istinto. Forse no, segue dei ragionamenti suoi: li cerca dentro ai testi delle canzoni senza preoccuparsi se queste sono cantate bene o stonate. Ne sceglie tre ogni volta, una playlist veloce di tre pallottole al cuore della storia di questi anni, quindi anche della mia storia. Mette insieme roba vecchia e musiche recenti, gente con sorrisi da copertina e brutte facce adatte a foto segnaletiche, nomi noti e gruppi mai sentiti, cercando di dare un senso a quello che dentro a quelle canzoni si canta. Una maniera piuttosto particolare di raccontare il presente. Quelli dell’ASFAI (www.asfai.info) gli propongono di raccogliere gli articoli in un libretto, e mi coinvolgono per realizzarlo. Suggerisco a En-Ri.ot di organizzare una compilation al contrario, di contattare cioè i vari gruppi e musicisti di cui si è occupato e chiedergli in prestito la canzone di cui ha analizzato il testo. Ne viene fuori “Note bandite”, uscito a ottobre e già finito (ristampatelo, dai). Uno di quei casi fortunati e felici dove ci si aggrega per una condivisione di ragionamenti invece che di gusti musicali comuni.

Fanno tredici, una per ciascun mese patafisico. Ma ce ne sono molte altre: la fanzine Germogli ad esempio (burningbungalow@gmail.com). Grazie per avermi ancora fatto posto qui. Grazie tantissime.

La mia non classifica musicale del 2021

La mia non classifica musicale 2021

Ecco la fine dell’anno e sono qui a scrivere la mia personale Non classifica musicale del 2021. Devo riconoscere che non ho un gran ché voglia di scrivere queste parole, non per gli album che ho scelto di inserire ma perché sono stanco del periodo in cui stiamo vivendo e penso che questo influisca sulle parole, che perdono di significato e che confondono la mente. Vengo alla musica che è sicuramente meglio. Mi sono tuffato da poco nella musica liquida, perché i figli mi hanno chiesto come regalo natalizio l’abbonamento ad una piattaforma musicale digitale: “… dai papà che così ascoltiamo bene, senza interruzioni pubblicitarie e ci facciamo le playlist liberamente”. Alla richiesta ho risposto con un abbonamento familiare ed infondo all’articolo c’è la mia playlist del 2021. Per i gruppi che ho scelto e che mi sono piaciuti, siamo sempre sui binari del rock sperimentale e del mescolamento degli stili musicali, ma la matrice di fondo resta il rock. Fatta eccezione per un gruppo inglese di nuovo jazz e per il compositore francese Jarre, che dedica un album di ricerca ambientale al polmone del mondo, l’Amazzonia. I gruppi scelti sono scozzesi, canadesi, australiani, inglesi, tedeschi, statunitensi ed italiani. Insomma quasi il giro del mondo. Ognuno di loro racconta musicalmente il loro e nostro 2021.

Arab Strap – As day get dark

Traccia d’ascolto

Black Country, New Road –

Traccia d’ascolto

Vasco Brondi – Paesaggio dopo la battaglia

Traccia d’ascolto

Can – Live in Stuccart 1975

Traccia d’ascolto

Fly Pan Am – Frontera

Traccia d’ascolto

Godspeed You Black Emperor! – G_d’s Pee At State’s End!

Traccia d’ascolto

Jean-Michelle Jarre – Amazonia

Traccia d’ascolto

Low – Hey What

Traccia d’ascolto

Nick Cave & The Bad Seeds – B-sides & Rarities Part II

Traccia d’ascolto

Nick Cave & Warren ellis – Carnage

Traccia d’ascolto

Mogwai – As The Loves Continues

Traccia d’ascolto

Rudimentary Peni – Great War

Traccia d’ascolto

the Sisters of Mercy – Sessions 1982 – 1984

Traccia d’ascolto

Sofa – Source Crossfire (1995-1997)

Traccia d’ascolto

Sons of Kemet – Black to the Future

Traccia d’ascolto

Tausend Augen – Westend

Traccia d’ascolto

Various – Vennero in sella due gendarmi Vennero in sella con le armi

Presentazione ed intervista ai curatori della raccolta.

Se poi volete ascoltare la mia non classifica musicale di quest’anno, ho preparato una playlist:

La mia non classifica musicale annuale degli anni scorsi è qui.

La foto con il telefonino è presa da Pixabay.