Cose belle del 2023 di Marco Pandin

Anche quest’anno Marco Pandin mi ha scritto le 13 cose belle del 2023. E’ sempre un bel regalo questo appuntamento con Marco, giunto al terzo anno. Buona lettura, visione ed ascolto! Le cose belle degli anni precedenti sono qui: 2022 e 2021.

Tredici cose belle del 2023 partendo da zero, in ordine di accadimento. Perché tredici è indipendenza e creatività. Tredici è la rivolta di Lucifero.

0- L’album di debutto di Djim Radé (nome vero Djimradé Kamndoh), cantante e chitarrista del Ciad, uscito a gennaio. Dire che è bellissimo è praticamente come dire niente, sembra quasi di fargli un torto. Non so se nelle nostre lingue euroccidentali ci siano parole adatte a descrivere forme di vita sonora simili, così luminose pulsanti radianti vibranti da sembrare provenienti da un altro universo. Le canzoni non procedono lineari ma imprevedibili come salti quantici, ciascuna con l’anima in spalle: un carico pesante di felicità, oppure è malinconia, o un dolore enorme. Chissà che nessuno faccia sapere di questo disco a Brian Eno, sennò l’anno prossimo avremo uno Djim Radé in versione plastificata e disinnescata ad aprire per i Coldplay o per gli U2 – e per noi sarà come perdere un bosco, o un ghiacciaio.

1- “Trieste è bella di notte”, il docufilm di Andrea Segre, Matteo Calore e Stefano Collizzoli uscito verso fine gennaio e realizzato con il sostegno, tra gli altri, di Banca Etica, Amnesty International e Medici senza Frontiere [qui https://www.youtube.com/watch?v=bysxnO4XF9g il trailer]. Sembra una storia artificiale, e un po’ lo speri. E invece no. Mentre guardi ti si muove qualcosa dentro in testa e ti ritrovi a pensare: non può essere in Italia, queste cose da noi non succedono. E invece sì. Il ministero dell’interno definisce queste operazioni “riammissioni informali” e le ha introdotte nel maggio 2020. A gennaio 2021 il tribunale di Roma le ha dichiarate illegali e sono state sospese fino al 28 novembre 2022, quando il ministro Matteo Piantedosi le ha riattivate. La storia è grosso modo: alcuni migranti afghani e pakistani della rotta balcanica riescono ad attraversare la frontiera italiana ma a Trieste vengono intercettati e bloccati dalla polizia e subito respinti, senza che gli sia data alcuna possibilità di fare richiesta di asilo. I nostri li spintonano indietro in Slovenia, dove i colleghi li prendono in consegna e li accompagnano premurosamente in Croazia, lasciandoli tra le mani di sbirri che li derubano di tutto soldi vestiti telefonino e dignità, li pestano facendo particolare attenzione a rovinargli le gambe, poi li mollano di notte da qualche parte in Bosnia dietro ai reticolati. Qualcosa da mangiare se hanno fortuna la raccattano stando attenti alle mine seminate negli orti abbandonati, sennò cazzi loro – parlano tutt’altre lingue e fanno fatica a spiegarsi ma tanto non c’è nessuno che li ascolti. Con la Carta dei diritti umani i governanti – i nostri, i loro – ci si puliscono il culo.

2- Il libro “I gabbiani vengono tutti da Brooklyn” scritto da Ettore Castagna, uscito ad aprile. L’anarchico Giuseppe Zangara, emigrato in America da un piccolo paese della Calabria, nel febbraio 1933 si procurò una rivoltella e sparò cinque colpi contro Franklin Delano Roosevelt, simbolo del capitalismo che crea la sofferenza del mondo – li meditava da una vita. Non riuscì a farlo fuori: il presidente se la cavò con un po’ di spavento, ci furono due feriti leggeri e due in maniera più seria tra il pubblico. A uno di questi durante le cure in ospedale si infettò la ferita e sopravvenne la morte per setticemia, così che Zangara si ritrovò colpevole di omicidio: dopo un processo veloce finì arrostito sulla sedia elettrica. Aveva trentatre anni. Strappato prestissimo dal banco di scuola e cresciuto a cinghiate e bastonate, era basso di statura, scuro di carnagione e minuto di corporatura. Giuseppe si incazzò col giudice perché al processo storpiava il suo nome, e durante l’esecuzione incitò il boia a fare in fretta. Alle guardie in carcere disse che avrebbe voluto una fotografia: Ettore Castagna gliene ha scattata una di duecentocinquanta pagine, ritratto in piedi di un ragazzo cresciuto troppo in fretta che, come Franti, non abbassa lo sguardo e ride quando il re muore.

3- Padova, primi di maggio. L’ultraottantenne Ferruccio Brugnaro che all’uscita del cinema intrattiene amabilmente quelle pochissime fortunate persone che hanno assistito alla proiezione di “The beat bomb”, il docufilm di Ferdinando Vicentini Orgnani incentrato su Lawrence Ferlinghetti e Jack Hirschman, entrambi scomparsi nel 2021 [qui https://www.youtube.com/watch?v=4MjqHsNXgoE il trailer]. Il film in sé è un’occasione sprecata: poteva essere una di quelle celebrazioni così gonfie di pittoreschi talenti attempati e di contestatori eccentrici adatta a essere trasmessa, rigorosamente a notte fonda e solo una volta, su quello che resta di Rai3. E invece è una veglia dolcissima ricamata dal suono di Paolo Fresu che di funebre e di lacrimoso non ha davvero niente e che anzi è gioia, è stupore e speranza, è incanto come può esserlo un ritaglio d’erba risparmiato dal cemento e dall’asfalto rimasto testardamente a sfidare il grigio stretto fra i palazzoni. Brugnaro dei visionari beat è stato collega amico e compagno, anche lui è un gigante irriducibile quando si parla di pace, di condivisione disarmo e solidarietà: la sua voce non vacilla, le sue braccia affettuose fanno il giro della Terra. Mio padre, io ancora un ragazzino, portava a casa ogni tanto dei volantini ciclostilati che l’operaio poeta distribuiva davanti ai cancelli delle fabbriche di Marghera. Ciascuno di quei pezzi di carta esortava a riflettere, a ragionare, ad amare: erano un invito a partecipare a una rivoluzione difficile, distribuito a gente che non sapeva leggere o leggeva a malapena.

4- Filippo Gambetta che suona suona suona in una piccola sala nella Saccisica, nordest profondo, fine maggio. Mi piace come costruisce in diretta la setlist, svolazzando tra un’alessandrina e un valzer popolare che appagano i più rigorosi (quelli che di ogni danza stanno molto attenti alla storia, ai significati e ai dettagli di ogni singolo passo e movimento) e una bourrée a due tempi che accende il cuore a qualche giovanissima coppia che quando può frequenta le mazurke clandestine del bal folk. E’ come se ad ogni concerto Filippo portasse con sé un sacco stracolmo di pepite d’oro puro provenienti da ovunque: le riversa sul palco disordinatamente, ci spolvera sopra un pizzico dolce d’Irlanda o ci infila in mezzo un ritornello di Renato Carosone e una strofa di Modugno, una scheggia di lambada, quando non addirittura una partitura azzardata di Wolmer Beltrami. Dai, Filippo, fanne un’altra. E un’altra ancora. Perché poi se la gente sa, e la gente lo sa che sai suonare, suonare ti tocca. Per tutta la vita.

5- Lo Speakers’ Corner Quartet, che dopo tanti anni di attività on the road pubblica l’album di debutto “Further out than the edge” a giugno. Se i Franti fossero un gruppo di oggi immagino suonerebbero press’a poco così, attenti com’erano a inventare per noi quelle loro canzoni così storte ricche di suggestioni future e tracce evidenti del passato. Quello che fa l’SCQ non è jazz anche se gli somiglia parecchio, come non è hip hop non è rock non è popular non è ambient non è folk ma è tutto questo insieme ed è anche di più: un mondo intero di impressioni, ritagli, mescolanze, sapori strani, incroci, contaminazioni, profezie e avvistamenti lontani. Il gruppo è tutto preso a intrecciare un tappeto volante diverso sotto a ogni lettore/interprete/cantante ospite, tutte voci che vanno controcorrente da Kae Tempest a James Massiah a Sampah, in un pezzo il fiato benedetto di Shabaka Hutchings. Una felicità contagiosa e primaverile.

6- Marino Severini dei Gang che a giugno pubblica “Quel giorno dio era malato”. Ho respirato attraverso ogni singola pagina, e le ho accarezzate tutte. Mi è venuto spesso da ridere e da incazzarmi, e qualche volta sono diventato triste. Un paio di volte mi sono girati i coglioni e l’ho lasciato là, ma poi non riuscivo a stargli lontano. Nel libro c’è lui, la sua voce, i suoi santi, il suo mondo, la sua testa, le sue prediche, il suo modo di muovere le mani e di agitarsi, ma leggendo ho scoperto che dentro ci sono anch’io e c’è buona parte della canzone che anch’io ho cantato in tutti questi anni.

7- L’album “My back was a bridge for you to cross” di Antony/Anohni and the Johnsons uscito a luglio. Sembra una raccolta di certi quarantacinquegiri oscuri così incomprensibili, assurdi e terribilmente fuori posto da noi negli anni Sessanta e Settanta quando eravamo tutti all’oratorio e poi a strappare il porfido dalla strada e le zolle di terra dagli stadi, figuriamoci dopo – tutti occupati chi col punk chi coi Duranduran chi con l’eroina chi con le P38. Così esplicitamente stracarico di tenerezza, di affetto, così stracarico d’amore e di dopo l’amore. E di carezze, di intimità e sussurri, di leccate all’improvviso e risate, di baci, di voli alti, di immersioni e immensità, del toccarsi e dello stringersi vicini dopo ad ascoltarsi i respiri, di quell’aria tepida che esce dalle sue narici così vicine al tuo viso. Libertà è restare vicini, a dirsi piano cose che nessuno senta. Libertà è contare i battiti del cuore con la punta delle dita. Ma le canzoni (come la libertà) durano poco, bisogna correre a rimettere il disco daccapo (e a difenderla, ogni libertà conquistata, senza mai stancarsi). E ancora. E ancora.

8- Fine agosto. Sante Cutecchia e Francesco Massaro ad Urupia, in Salento, che suonano e raccontano con Mariagrazia Fiore una di quelle storie disperate ma così piccole piccole che non finiscono nei giornali né dentro le televisioni. E’ la storia di Dana e alcune altre ragazze slovene vittime dei rastrellamenti dei fascisti italiani e delle rappresaglie dei nazisti che, deportate nel 1942 dapprima a Venezia poi a Trani, riescono a resistere. Qualcuna riesce anche a ritornare a casa, e a raccontare. Trovo che la “Bella ciao” più bella sia quella delle mondine mescolata a quella dei partigiani cantata dal gruppo raccolto intorno a Riccardo Tesi qualche anno fa per la riproposizione dello spettacolo omonimo. A pari merito c’è quella offerta da Goran Bregovic e dalla sua Wedding and Funeral Orchestra, che mi ha davvero commosso. E c’è quella che ho sentito suonare dal vivo da Marc Ribot (nella versione presente nell’album “Songs of resistance” c’è la voce scartavetrante di Tom Waits). E c’è anche questa versione di Sante e Francesco, così sanguinante e oscura – ne sono rimasto profondamente toccato.

9- Uno che si fa chiamare Capitano Merletti e che di militare o di militaresco non ha proprio niente – una chitarra al posto del fucile, capelli lunghi, barba, braccialetti, sorrisi, tanti colori addosso. L’ho sentito cantare e suonare, assieme a un violinista assai bravo, al Mismash a Pordenone a inizio settembre. All’inizio temevo fosse una cosettina hippy fumogena tipica da campagna veneta rassegnata & sottomessa, e invece il capitano si rivela presto un campione di Razza Piave deviata, un degnissimo rappresentante di quella schiuma sociale intelligente così detestata dagli sceriffi e da certi sindaci neroverdi che eleggono da queste parti. Una di quelle preziosità che la nostra provincia tiene ben nascoste in serbo per sé – come una volta Plasticost, Frigidaire Tango, Detonazione, Degada Saf, Dimitri Golowaskin, Qfwfq, Wax Heroes, Endless Nostalgia, Death in Venice, Inzirli, Funkwagen tutti diamanti nordestini impossibili da addomesticare nel gregge della “nuova musica italiana” ufficiale e finiti col rusco o su ebay, che praticamente è uguale. Per ciascuna canzone del capitano si potrebbe trovare una rassomiglianza con qualche cosa di bello/bellissimo/bellissimissimo andato a depositarsi nel fondo dei ricordi. A fine concerto una versione da brivido di “The thoughts of Mary Jane” di Nick Drake con l’autore che dalla sua nuvola guarda giù, sorride e approva.

10- Paolo Cognetti che in coda a “Giù nella valle” (il suo quarto staordinario ottomila in pochi anni, uscito a ottobre) mi prende da parte e mi spiega perché “Nebraska” è così importante per me e perché ho continuato a comprare i dischi di Bruce Springsteen in tutti questi anni.

11- Sono in giro in Lombardia ai primi di novembre a proiettare il docufilm dei Kina e a raccontare qualche scheggia delle mie storie. Arrivo una sera al centrosociale Pacì Paciana di Bergamo e a un certo punto mi accorgo che i miei vicini di banchetto parlano una lingua che confina con la mia: sono padovani e mi mostrano un paio di dischi prodotti da loro. Ho solo un’idea vaga di che cosa ci possa essere dentro i solchi, ma trovo che quelle copertine siano realizzazioni grafiche davvero notevoli e decido di prenderli seguendo l’istinto. D’altra parte, tanti anni fa avevo comprato “Unknown pleasures” solo perché la copertina mi aveva incuriosito ed attratto come una stella cometa, allora i Joy Division mica li conosceva nessuno. Concerto collettivo stasera – i primi fanno un po’ sorridere, così giovani. I secondi in lista sono loro. Dagli qualche secondo di silenzio per concentrarsi e staccare la spina dal resto del mondo, e senza preallarme scoppia un’eruzione e mi ritrovo nel magma fino alle ginocchia. Tutto intorno è nero, e questo è il suono di tutto il nero che ci circonda oggi. Nero che chiama guerra, pioggia battente e grandine, che chiama deserto e febbre e sete, e ghiaccio, e pestilenza. Il nero dei pensieri che sbattono addosso alle pareti della testa cercando un’uscita, il nero delle porte sbarrate che ci tengono lontani da un qualche oggi da provare a costruirci intorno e un qualche domani da poter sognare. Musica ben immaginata e altrettanto bene eseguita che mi incendia l’anima – un misto di amarezza, consapevolezza, determinazione, radicalità e quella luce fioca là in fondo. Si chiamano Wojtek e la loro musica mi è saltata addosso e non mi molla. Il più bel concerto di quest’anno.

12- Tutta da guardare scavare toccare assaggiare, ciascuna pagina una boccata d’aria fresca e pulita. E’ uscito a novembre il numero 5 di Respiro, rivista di grafica, disegni e ragionamenti completamente autoprodotta e autogestita. I vari contributi sono volontari e non retribuiti, quanto raccolto va ad alimentare la cassa antirepressione delle Alpi Occidentali – aiutano cioè alcune ragazze e ragazzi che si trovano chiusi in galera perché hanno provato a ragionare con la propria testa, e che hanno bisogno di respirare come e quanto noi che per ora siamo ancora fuori. Respiro è quello che manca perché l’aria è avvelenata, perché un poliziotto ci schiaccia a terra incrinandoci le costole, o a schiacciarci a terra è il silenzio obbligatorio che viene imposto a chi non si rassegna ad ubbidire alla voce e al manganello del padrone.

13- Il meraviglioso videoclip di Carlo Cagnasso per “Le colline di fronte” di Lalli e Stefano Risso, uscito a dicembre e visibile seguendo il link https://www.youtube.com/watch?v=24e5nNz064A. Evito di proseguire perché da qui in poi saprei scrivere solo parole seguite da punti esclamativi, e potrebbe sembrare un’autopromozione eccessiva.

Lalli Stefano Risso Qui copertina interna
Lalli e Stefano Risso – Qui

Cose belle del 2022 di Marco Pandin

Marco Pandin mi ha scritto le 13 cose belle del 2022. Sono sempre preziose per me, sono un bel regalo ed un appuntamento per rinnovare l’affetto e l’amicizia che ci lega. Penso siano importanti ed interessanti da leggere, del resto come quelle del 2021. Buona lettura, visione ed ascolto.

13 cose belle di Marco Pandin

Tredici cose belle del 2022.

Libri riviste dischi concerti incontri in ordine sparso, forse in ordine di temperatura. Tredici perché questo numero accende la superstizione.

– L’album “Solace” dell’irlandese Patrick Dexter, uscito in primavera. Musica immaginata e offerta da tutt’altro punto di vista [qui https://www.youtube.com/watch?v=YVDlIaRagCI un assaggio]. Registrata all’aperto verosimilmente lontano dalla città, nei microfoni entrano il violoncello e il fruscio disturbante dei ragionamenti a proposito della pandemia, ma anche il respiro del musicista e quello dello strumento, e l’aria che si sposta, e il canto degli uccelli, gli insetti curiosi che si avvicinano ai microfoni, le foglie sugli alberi e il va e vieni delle nuvole sullo sfondo. Manca solo il cane dei vicini, ma potrebbe anche esserci e non ci si fa proprio caso. Fa sorridere e insieme riflettere che venga pubblicato oggi un disco immaginato e realizzato in questo modo biologico e naturale e pacifico dopo decenni di battaglie sanguinose per conquistare artificialmente in studio il silenzio su cui costruire e far risaltare il suono nella sua purezza più glaciale. Ma così sembra tutto più caldo ed umano, e attraverso le orecchie senti il sole che ti entra sotto la pelle, e con lui in punta di piedi entrano tutto il verde dell’erba e l’azzurro del cielo e i sussurri delle api a risvegliare ogni amore di ogni bestia che tieni nascosta dentro. Addormentarsi in compagnia di questo disco è bellissimo. Lasciatelo proseguire, perché risvegliarsi mentre suona questo disco è, se possibile, ancora più bello ed appagante.

Toni Bruna che a mezzanotte canta e suona e racconta storie davanti al teatro Miela di Trieste, metà marzo. Al suo concerto quella sera erano rimaste fuori parecchie persone senza biglietto e senza green pass – e non era giusto. Così a un certo punto ha detto due parole, ha abbandonato il palco e la sala e si è messo lì fuori a fare il busker, davanti a cento e più anime in fiamme nonostante il borino. Cosa vi posso dire io di quelle sue canzoni di confine, che raccontano di gente rimasta sola e di posti rimasti soli senza la gente. Così esili, fatte d’acqua e d’aria, così leggere ad attraversare in volo le nostre discussioni e ragionamenti, i campi di grano e di battaglia, nazioni in conflitto e conflitti televisivi, le dogane, i cimiteri, il mare. Sono canzoni di costituzione fragile, che sembrano poco adatte a cantare di resistenze e rivoluzioni, eppure ciascuna si rivela come un modo diverso e inedito di parlare d’amore. Gli chiedo come fa, lui dice che le parole gli escono fuori così e non sa come mai. Adoro come fa strisciare le dita sulle corde della chitarra quando cambia gli accordi: è proprio lo stesso rumore che ho dentro in testa ogni volta che cambio idea, quando mi nasce un’idea nuova.

– l’album “Afrikan culture” di Shabaka Hutchings, uscito poco prima dell’estate, è uno di quei dischi che ti alzano di un metro o due da terra e ti lasciano là. All’inizio sembra quasi che si siano sbagliati e che dentro la copertina sia finito un disco di Stephan Micus. L’ha pubblicato una major, forse si saranno sbagliati anche loro – avranno creduto fosse jazz da vendere ai bancari. Nei negozi lo vendono ai bancari come jazz. E invece dentro ci sono i leoni, le terre perse, le schegge della mezzanotte, le barene dove non sei in terra né in acqua, i posti inesplorati che stanno dopo l’ultima fermata dell’autobus. Un continente intero di suggestioni compresso in una mezz’ora scarsa. Un’eruzione esplosiva di spiriti e presenze, migliaia e migliaia di metri cubi di rovente ispirazione ancestrale rilasciati nell’atmosfera. Tutt’altro che un documentario, una mappa o una profezia, o forse le tre cose insieme. Sono andato a rileggermi Iosif Brodskij che raccontava la precarietà dell’equilibrio e l’allarme dei sensi durante un viaggio in vaporetto, lui abituato com’era alla terraferma e al freddo. Un lavoro di una bellezza sconfinata e irraccontabile questo di Hutchings – e infatti è un po’ che sono qui che scrivo e cancello e riscrivo e cancello ancora queste ultime due tre righe senza trovare niente che si avvicini alle onde alte che mi si agitano nello stomaco e dietro gli occhi. Se esistono gli dei, li trovi sui vaporetti verso Castello e hanno di certo questo disco piazzato in loop perpetuo dentro i loro walkman.

– le ultime poesie di Gregory Corso, raccolte in “The golden dot” e stampate da Lithic Press in agosto [info e richieste qui www.lithicpress.com]. Molte sono senza titolo, solo la prima è al suo posto e forse anche la seconda mentre tutte le altre sono in ordine casuale – come voleva lui. Sono un viaggio che si trascina dentro gli anni che seguono la morte del suo amico e mentore Allen Ginsberg, viaggio tormentato dalla depressione e da reiterati disastri di salute e che si chiude con la morte di Corso avvenuta nel gennaio del millennio nuovo che lui desiderava fortemente toccare con le dita. Figlio di due minorenni poverissimi di origine italiana e presto abbandonato, aveva passato l’infanzia tra orfanotrofi e affidamenti temporanei, e l’adolescenza tra la strada e il riformatorio. E’ finito dietro le sbarre a diciassette anni per aver rubato di che vestirsi – messa così somiglia a una storia di quelle che raccontano in chiesa. E’ nella biblioteca del carcere che Gregory trova ispirazione e riscatto, i suoi compagni di prigionia sono i suoi angeli. Nel libro i curatori spiegano perché ci siano voluti vent’anni per pubblicare queste righe preziose. Corso è uno dei miei poeti preferiti. Nell’estate del 1980 ho avuto la fortuna e il privilegio di assistere a una sua breve lettura: indossava la divisa dello sbruffone, ma nascosto sotto c’era uno spirito sensibile che continuava a meravigliarsi della sua popolarità, e a temerla – come temeva la solitudine.

– il docufilm “Po” di Andrea Segre e Gian Antonio Stella uscito nelle sale a marzo [qui https://www.youtube.com/watch?v=FT4tyi9H7g8 un estratto]. Un’ora e mezza di accelerazioni e strattoni del cuore durante la quale ho messo a confronto le immagini che mi scorrevano dinanzi con i racconti dei miei genitori e dei miei nonni. Storie di quando non ero ancora nato, successe per davvero solamente qualche anno prima dal mio arrivo e che però ho sempre immaginato leggende da chissà quale passato remoto, il tutto filtrato attraverso la mia esperienza piccola – l’acqua granda del 1966 che ancora ricordo distintamente. Sono le storie minime tipiche della gente povera, fatte di roba poco consistente come schegge, calcinacci, segni sui muri, attimi, polvere, gocce, illusioni, e qualche cosa grossa che non si dimentica come la condivisione, la speranza, le parole che guariscono e il sostegno reciproco. Storie dove a volte basta solo un sorriso per squarciare la nebbia più nera e alleggerire il carico grave della miseria. Il documentario racconta una cosa importante, che è poi la stessa che aveva insegnato il grande vecchio Mario Rigoni Stern: è solo soffermandosi ad ascoltare e raccogliere tutte le piccole storie che la Storia può meritarsi un’iniziale maiuscola orgogliosa e fiera e che perdura. Poi però nei libri va a finire quell’altra, quella che insegnano a brandelli nelle scuole e omogeneizzata dentro le televisioni e che io scrivo apposta in minuscolo: storia che ha la stessa voce del padrone e viene descritta invariabilmente da quelli che hanno imparato a scrivere sotto la dettatura feroce di chi ha vinto.

– Tiziano Sgarbi che canta in una piccola corte giù sotto casa prima di un suo amico olandese, ai primi di giugno. Senza amplificazione, senza microfono, senza segreti e senza mi cantino. Non lo vedevo da un po’, da quando si faceva chiamare Bob Corn: quei vestiti che nascondono male la sua magrezza, il grigio dei capelli che non riesce ad annacquare la sua determinazione, la sua irrequietezza inossidabile al tempo che passa. Stiamo parlando di uno che ha impastato con le sue mani la scena indipendente del nostro paese, giusto per puntualizzare. Fa solo pochi pezzi, uno è di Will Oldham un altro non ricordo di chi. A un certo punto racconta “La mela di Odessa” e io vado in frantumi, e mentre sono là che cerco di raccogliere i pezzi da terra mi accorgo che il peso di questi anni di ciarpame new wave pop punk non è affatto riuscito a schiacciarmi. E nonostante la musica leggerissima che cola giù dalle radioline e dai telefonini del mondo intero io ritrovo respiro, e ritrovo aria, e ritrovo luce e voglia, e mi ricarico di salute, di propositi, di energia buona, di futuri possibili. Il suo amico olandese è Zea cioè Arnold De Boer cioè cazzo il cantante degli Ex – che per me significa ritrovarmi ad abbracciare quella persona che per anni mi ha tenuto per mano e sorretto mentre ero preso a non affogare nella sfiga, ma che ho solamente potuto intravedere di sfuggita dentro ai dischi. E invece di dirgli grazie e raccontargli tutto riesco solo a restarmene là col respiro sospeso, gli occhi umidi e le parole incastrate in gola.

– la performance di Path in apertura del concerto degli Ombra al Tank di Bologna, verso metà aprile. Luci basse e odore acre di disordine misto a birra spanta, come il giorno dopo un party. Eccolo che entra, lupo grigio che neanche si guarda intorno, in un attimo è già sul palco. Tiene lo sguardo raso terra sì, ma dai denti gli escono versi roventi e le parole sono pallottole. E’ così abile che neanche prende la mira: al primo pezzo ero là stordito, mi ha fatto fuori al secondo. Me li vedo già tutti quei miei amici sapienti e criticoni, quelli che si annoiano perché hanno ormai già ascoltato e capito tutto, a disquisire sulle percentuali di Woody Guthrie e di Billy Bragg dosate dentro a questa voce giovane. Voglio tanto bene a Woody e a Billy ma lasciamoli stare dove sono per carità, per me è Path e basta. Path che canta quelle sue canzoni arruffate e con poca speranza dentro cui ho ritrovato un pezzo di me, ed è un pezzo che sanguina forte: mi guarda fisso negli occhi e non sorride affatto.

– il libro “La Resistenza in 100 canti” curato da Alessio Lega uscito ad aprile [cercatelo qui www.mimesisedizioni.it oppure qui www.alessiolega.it]. Duecentocinquanta pagine abbondanti. Un mattone, e bello pesante, che può venire utile: prendendo con attenzione la mira lo si può scagliare contro le finestre pulite dei palazzi di chi comanda. Il mio caro amico e fratello e compagno salentino ha raccolto una serie di scritti commoventi, offrendo per ciascuna canzone una bella storia che ha per protagonisti ragazze e ragazzi disposti a sacrificare sé stessi e il loro futuro piuttosto che vivere senza libertà. E sono storie vere, pensate: c’è gente che si è addirittura fatta ammazzare per permettere a me e a voi di cantare. Lo si dovrebbe far circolare nelle scuole per educare i bambini alla solidarietà e alla gentilezza, e invece è un libro che davvero non ha posto in questo paese di sottosegretari e memorie tagliate corte.

– il concerto di Silva Cantele a.k.a. Phill Reynolds in un quartiere défavorisée a Padova, fine luglio [qui https://www.youtube.com/watch?v=0IW_WG25YtM una scheggia dimostrativa]. Ho abitato proprio lì vicino per quasi dieci anni, solo qualche strada più in là verso la stazione dei treni, e per i trent’anni precedenti a Mestre – una periferia anonima e qualsiasi grigioscura di rassegnazione e avvelenata di cemento armato, asfalto e smog. L’Arcella è uno di quei posti lontani dalle passeggiate delle domeniche perbene che i quotidiani e le televisioni locali raccontano sempre e soltanto in termini di disagio, malessere, maleducazione e insofferenza, eppure c’è parecchia gente intorno che smette presto di guardare i telefonini chiacchierare e bere birra, si avvicina e ascolta con attenzione. Questa sera Silva presenta “A ride”, il nuovo lavoro appena pubblicato: storie di strada, di fuga, di sbarre, di pioggia dura che cade. Usa la chitarra come se imbracciasse un fucile, lei ricambia le sue carezze muorendogli d’amore tra le mani. Ogni tanto la maltratta (per il bis la prende a schiaffi ottenendo in cambio una “Ring of fire” da urlo), ci annoda sopra arpeggi irregolari e urgenti e scattosi. Lo so bene che bestemmio, e chissenefrega, ma stasera mi sembra proprio come Johnny Cash quella volta a Folsom o a San Quentin per i carcerati – una rasoiata ogni rima, un calcio sui coglioni ogni strofa, ogni ritornello un chiodo che ti striscia sulla schiena e si conficca fra le costole.

– il concerto dei Caged al CS Brigata di Imola, maggio. Stavamo mangiando allo stesso tavolo – figuriamoci, io avevo appena conosciuto Serena la batterista ma stavamo parlando di tutt’altro, mezz’ora prima manco sapevo che con quegli altri ci suonasse insieme. Si chiacchiera, loro tutti belle facce, svegli, bravi, simpatici. Una compagnia piacevole in un posto accogliente e che funziona bene – cosa chiedere di più. Al nostro tavolo si aggiungono altre ragazze e ragazzi. Tanti auguri a Berto il tecnico tuttofare – torta di compleanno a sorpresa, si fa un pezzetto ciascuno. Neanche due minuti dopo tocca a loro. Attaccano – e nel senso guerresco e incendiario della parola. Cazzo, che impatto: decisi, precisi, martellanti e determinati – tengono il livello della tensione sempre molto alto proprio come voglio io nei miei desideri sonori più sporchi. Un torrente di lava che brucia tutto, che travolge e butta giù tutto ma che lascia dietro sé terreno nuovo e vivo. A fine concerto mi fiondo a ringraziarli mostrando tutto il mio stupore e la mia ammirazione, loro sorridono e il cantante si schermisce e mi chiede scusa perché è sudato.

– il fumetto “Our true colors” di Gengoroh Tagame, tradotto in italiano e pubblicato da Panini a giugno [sito ufficiale qui www.tagame.org, ma non cliccateci sopra se siete impressionabili]. Alcune cose del medesimo autore le trovate tradotte in inglese, francese e spagnolo nei formati per e-book. In italiano c’è poco o niente: nelle librerie più fornite e online ci sono soltanto quest’ultima opera e il precedente volume “Il marito di mio fratello” (2017), pubblicato sempre da Panini. Va anche detto che questi bara non sono cose da leggere disinvoltamente in treno o nella sala d’aspetto del medico di base, per cui capisco quanto sia difficile prodigarsi a diffondere i lavori di questo mitico disegnatore giapponese. Quarant’anni di carriera che lo hanno fatto divenire un riferimento internazionale. Cazzi e culi spremuti dentro a dozzine di storie esplicite, ciascuna un vero e proprio monumento grafico alla sopraffazione, storie d’amore passate attraverso un distorsore dentro alle quali come minimo ci si pesta duro e ci si fa male – “The house of brutes” e “The silver flower” le più drammatiche. Nei lavori più recenti di Tagame attraverso le tavole i gemiti e i fluidi corporei si fa però largo spazio a sentimenti, ragionamenti e condivisione. Dove ne “Il marito di mio fratello” il centro della riflessione è una ridiscussione della forma e della funzione sociale della struttura familiare, in “Our colors” ci si concentra sulle difficoltà e le fragilità dell’adolescenza e sul processo lento e delicato di costruzione dell’identità. Trovo siano entrambi dei libri da far leggere ai ragazzini, anzi che siano libri da leggere assieme ai ragazzini essendo disposti ad affrontare domande spinose e a dare risposte guardandoli in faccia. Libri che accendono arcobaleni in cielo e nel cuore, e migliorano questo mondo.

– i Nêuvegramme che suonano al Raindogs di Savona, metà giugno. Sì d’accordo il loro disco nuovo “L’inesausta tensione” è breve ma ben fatto e ben strutturato, suoni curati e parecchia attenzione ai dettagli – un’autoproduzione a cinque stelle. Ma ciò che esce e soprattutto ciò che mi resta dentro da questa performance è davvero tutt’altra cosa, non so se riesco a prenderne le misure. Il concerto è complicato e stupefacente e mi accende in testa tanti pensieri e altrettanti ricordi. Mi piace che dal palco non facciano prediche né promesse. Diversamente da quanto facevamo noi una volta, incontro sempre più spesso dei giovani musicisti che si impegnano a studiare, a leggere, ad esercitarsi, a conoscere, a ragionare prima di salire su un palco o di mettersi a registrare. A cose così noi allora generalmente non ci si pensava, tutti quei nostri discorsi sulla spontaneità e sull’improvvisazione che così spesso erano solo maschere appiccicate alla faccia della nostra inadeguatezza. Penso che se i Nêuvegramme ci fossero stati quarant’anni fa avrebbero polverizzato la scena, e forse proprio per questa ragione credo sia meglio se ne stiano a suonare le loro cose in quest’oggi, in questo presente, forse in qualche modo vagamente debitori al punk di allora ma culturalmente lontanissimi dai sedicenti combattenti del passato – guarda che fine di merda hanno (…abbiamo) fatto. Penso che la musica nuova per mantenersi viva e diffondere amore e ispirazione debba tenersi lontana anche dalle corse dei cani e dai raduni dove si arriva a conquistare un quarto d’ora sotto i riflettori giocando sporco al massacro contro altri ragazzi che hanno la sola colpa di condividere i tuoi stessi desideri. E penso anche che questo sia il più bel concerto a cui ho assistito quest’anno (facciamo a pari merito con i canadesi Godspeed You Black Emperor a Bologna a ottobre, dai).

– “Designing riots”, rivista illustrata per canaglie, tre numeri usciti fra febbraio e settembre. Formato tascabile, tutti belli da guardare e molto istruttivi da leggere – estrapolo una frase a caso: “Usa la tua creatività: i nostri nemici sono privi di fantasia, prevedibili, reagiscono in modo meccanico e di fronte alla novità sono spesso impreparati…”. Sembrano le note che farcivano uno qualsiasi degli ultimi dischi dei Crass, periodo Stop the City – al tempo si pensava diffusamente che rispetto all’hc americano muscoloso e palle in mostra quei poveri hippies vegetariani fossero sbiaditi e patetici, ma quello che i Crass urlavano si è poi rivelato essere il nostro presente e la nostra normalità merdosa di questi anni. Poche pagine ogni numero, una quarantina, che dire dense di ispirazione è riduttivo. Ognuna un manuale di istruzioni per come muoversi per le strade in consapevolezza e in sicurezza che potrebbe tornare utile e, metti che succeda un’altra Diaz, rivelarsi prezioso in uno qualsiasi di questi giorni di governo nuovo.

– il film “Margini” diretto da Niccolò Falsetti, uscito in sala a settembre [qui https://www.youtube.com/watch?v=LZUVlzIPltY il trailer ufficiale]. Raccontata con le parole che ci abitano abitualmente in bocca, è la storia di quando i sogni sono troppo grandi per essere compresi dalla realtà delle cose, dalla cosiddetta normalità. Eppure senza sogni, soprattutto senza grandi sogni, la vita non va avanti – è che a un certo punto tanti smettono e si chiudono in casa, ordinano pizze e sushi che qualcuno gli porta in cambio di uno scontrino e di un’elemosina, e sprecano ore di vita fra TikTok e YouTube. Per farla breve e senza spoilerare troppo il film racconta la storia di tre amici che suonano in un gruppo e si sbattono per restare a galla dentro a una provincia immobile. La musica è il collante che tiene insieme loro e l’intera loro rete di relazioni e di amori, tutti bellissimi e tutti disperati. Sembra che anneghino nella sfiga, in verità stanno conquistando la loro vita colpo su colpo finendo ciascuno col piantare una bandiera nera a sventolare sulla vetta. “Margini” racconta cose che sono successe spesso e ovunque, e ridotte presto al silenzio e all’oblio, già da poco dopo la metà degli anni Ottanta in una qualsiasi periferia occidentale. E’ proprio vero: per certi sogni smisurati qui fuori, qui nel mondo dove finiscono le pacchie, non c’è affatto posto.

Mi aggancio a quest’ultimo pezzo. La cosa più bella di quest’anno me l’hanno regalata dei miei vecchi compagni. Nel corso del 2021 avevo curato un libro/cd/dvd dei Kina, che poi nel 2022 abbiamo presentato e discusso in giro: ecco, girare a fare presentazioni e proiezioni con Gianpiero e Sergio e gli altri mi ha restituito quello che la sfortuna tanti anni fa mi aveva portato via. Col pretesto di questi incontri ho avvicinato ragazze e ragazzi meravigliosi che si fanno un culo della madonna per mantenere aperti e puliti e funzionanti degli spazi liberi. Quando avevo vent’anni dai palchi volevano convincermi che il futuro non ci fosse più: era gente già ricca che voleva anche i miei soldi, era gente grigia e spenta che voleva i miei sogni, era gente già morta che voleva la mia giovinezza. Non gli ho creduto affatto, perché pensavo che il mio futuro dipendesse per grande parte da me, ed è bellissimo rendersi conto oggi a 65 anni suonati (ma non è stata una scoperta tardiva, quanto una serie di conferme giunte nel corso del tempo) che valeva la pena non arrendersi e sbattersi e lottare, e che non ho affatto finito di imparare, di conoscere, di avvicinare, scambiare, migliorare. Grazie a tutti voi che mi state allungando e rendendo così dolce e interessante la vita. Dico a voi. Siete voi il futuro, adesso. Guardatevi, come siete belli.

Ostrega, sono quattordici. Non vale. Grazie per avermi ancora fatto posto qui. Grazie tantissime.

Marco Pandin
stella_nera@tin.it

A Verona: Se ho Vinto Se ho Perso docufilm sui Kina

A Verona giovedì 28 aprile 2022, sarà presentato il libro e il DVD “Se ho vinto Se ho perso”, dedicati al gruppo anarcopunk dei Kina, storica band della scena underground italiana degli anni’80.
Saranno presenti il curatore del libro Marco Pandin di stella *nera e Sergio Milani, batterista e voce dei Kina e Frontiera. All’evento sarà proiettato il docufilm “Se ho vinto Se ho perso” diretto da Luca Rossi, a cui saranno presenti Marco e Sergio.

Vi aspettiamo a Verona, presso La Sobilla in Salita San Sepolcro, 6b.

Cose belle del 2021 di Marco Pandin

Le cose belle del 2021 di Marco Pandin

Pochi giorni fa, abbiamo scambiato qualche parola con l’amico Marco Pandin di stella * nera. Si scherzava sulla mia Non classifica musicale 2021. Marco mi diceva che è da tempo memorabile che vorrebbe farne una alla fine di ogni anno… e quest’anno eccola! L’ho trovata interessante e sorprendente, non solo per i contenuti musicali, ma anche per le pubblicazioni editoriali. Buone letture ed ascolti!

Cose belle del 2021 (in ordine sparso e partigiano)

– gli articoli di Alessandro Kola sul sito di Radio Città Aperta – Neurotic vibes neurotic minds (www.radiocittaperta.it/cat/musica). Scritti bene, con attenzione e rispetto, mettendoci impegno, la giusta serietà e una bella fetta grossa di cuore. Si capisce presto che Alessandro è troppo giovane per aver vissuto gli anni Ottanta e i fatti che si prende la briga di raccontare, ma immediatamente dopo ti accorgi che questo non è un problema. Perché lui è uno che ci crede – molto di più di tanti che una volta, microfono e/o megafono in mano, dichiaravano ad alta voce di farlo e invece erano fabbriche tossiche di risentimento e di rancore.

– il libro di Laura Carroli sui Raf Punk (www.agenziax.it/schiavi-nella-citta-piu-libera-del-mondo). Un’isola a sé, che non c’entra un cazzo col resto delle memorie di maschietti borchiati & invecchiati uscite al supermercato in questi 20/25 anni – ciascuna una lapide sulla tomba del punk biancorossoeverde. Laura racconta di sé, dei suoi dubbi, delle incertezze, delle paure da scavalcare, dei tentativi, delle difficoltà. Nel libro lei è bella come la luna e terribile come un esercito schierato (citazione colta). Guarda come e dove sono finiti quelli che di dubbi non ne avevano: assessori, sindaci, portaborse, intermediari e ruffiani, padroni di cani, faccendieri, presidenti di qualunque cosa, addirittura predicatori, persino cantanti. Una volta stavano a tuonare e scorreggiare dentro le fanzine, oggi a mostrare il lavoro del dentista dentro ai giornali che ti danno quando sei in coda dalla parrucchiera.

– il concerto dei Crancy Crock (www.crancycrock.it) all’Anarchist Bookfair messa in piedi dal circolo Underground un sabato di metà dicembre, al Bafo di Seriate BG. Hanno piazzato il banchetto proprio vicino a quello di stella*nera, sembrano simpatici e dopo un po’ scopro che hanno già autoprodotto 4 o 5 cd e io neanche sospettavo esistessero – sono un pozzo di ignoranza, lo so e non c’è rimedio. Tocca a loro. Il tempo di ficcare il jack nell’amplificatore e guardarsi in faccia, un attimo di vuoto e i cinque attaccano a pestare duro. Sembra un frullato padano e gioioso di UK Subs e Stiff Little Fingers e quello-che-volete-voi che spazza via con un sorriso tutta la merda di questi quarant’anni. Mi sono divertito come una bestia – ed era ora, cazzo.

– il concerto in streaming gratuito del 27 marzo con cui i Godspeed You Black Emperor (cstrecords.com/pages/godspeed-you-black-emperor) hanno presentato in anteprima il nuovo album “G_d’s Pee at state’s end“, uscito la settimana successiva. Le telecamere non erano puntate sui musicisti ma indietro, al fondo del palco, sul lavoro cinematografico di Karl Lemieux e Philippe Leonard che accompagna abitualmente le loro performance. Un monumento sonoro in un cinema deserto. Questa per me è la speranza con un vestito nero che le sta addosso bene. E’ musica che mi trivella in profondità.

– la maglietta dei Kina disegnata da Chiara Gattuso (chiaragattuso.it) e stampata benissimo da Rox in occasione dell’uscita del cd con le registrazioni del reunion tour 2019. Non aggiungo commenti perché potrebbe sembrare un’autopromozione.

– il nuovo libro di Paolo Cognetti “La felicità del lupo” (il blog paolocognetti.blogspot.com non appare aggiornato da tempo, purtroppo). Lui mette insieme le parole in un modo che ti strappa il respiro dalla gola. Pensavo che il suo ottomila fosse stato “Le otto montagne”. E invece poi ha scritto “Senza mai arrivare in cima” e adesso quest’altro che mi lasciano seduto per terra in mezzo al bosco. Mi sembra di essere come quella volta Oliver Sachs in Norvegia: gamba rotta, telefonino che non prende, arriva sera e io che però non ho paura.

– il film di Sophie Deraspe “Antigone” (official trailer al link: www.youtube.com/watch?v=3fFG0wYyR0Q), è del 2019 ma in Italia è uscito solo a novembre. Una storia senza vie d’uscita fatta di violenza, morte, ingiustizia e sopraffazione. Una storia già scritta duemilacinquecento anni fa ma che accade oggi: a cinque minuti dall’inizio cominci a ripeterti come un mantra che è un film, che non è vero, che è solo un film, che non può essere vero. La storia si interrompe malamente, si accendono le luci in sala e tu annaspi verso l’uscita dal cinema, fai finta di niente, ti aggiusti la mascherina, torni a casa, ti prepari qualcosa da mangiare e dopo un po’ ti sembra tutto come prima. Poi d’improvviso rieccola, la storia: armata di casco protettivo, sfollagente d’ordinanza, spray OC e anfibi chiodati, eccola a buttarti giù la porta di casa mentre stai dormendo.

– la ristampa di “Venezia” di Gigi Masin (store.silentes.it) – un atto d’amore, di quelli teneri e disperati. Il cd accompagnava un libro di fotografie di Stefano Gentile uscito in edizione limitata nel 2016 e presto esaurito. Quando ero ragazzo mi piaceva camminare per Venezia perché riuscivo a sentire il suono dei miei passi, come succedeva in montagna. Adesso mi piace immaginare quasi ogni calle abitata da questo suono. Gigi è una rondine venuta a fare il nido accanto alla tua finestra: l’inverno la porta via ogni anno, e lei che poi ritorna. Altro sogno in contemporanea, oppure volendo altro incubo: lungo il perenne carnevale artificiale degli itinerari turistici (la voce registrata del doge che intima: seguire le frecce gialle, please) tra la calca risuonano implacabili le Quattro Stagioni passate sotto il bisturi, lo schiacciasassi e la fiamma ossidrica di Max Richter.

– le “Memorie di un filologo complottista” scritte da Francesco Benozzo (www.francescobenozzo.net). Perché a un certo punto io nei miei dubbi mi perdo, devo tornare indietro, devo rileggere, devo scavare, devo mettere insieme i pezzi, devo capire o almeno devo provarci.

– la fanzine Miseria Nera (www.miserianera.com). Nel numero zero di scritto solo tre righe (e copiate da altrove) a pagina tre, tutto il resto sono foto b/n di Luca Benedet e Matteo Bosonetto. Ogni immagine una storia lunga, contorta, spinosa, divertente oppure nera di malinconia.

– la meravigliosa ristampa di “On the Mesa” (the-song-cave.com), una raccolta mitica uscita nel 1971 per la City Lights di Lawrence Ferlinghetti, e in versione espansa per Song Cave lo scorso marzo. Un libro di poesie beat che al tempo delle scuole superiori ho solo potuto leggere spezzettato/disperso su fogli underground e tutto intero solo in sogno. Adesso, dopo cinquant’anni e con gli occhi vecchi, posso tenerlo fra le mani e finalmente sprofondarci dentro. Ci hanno aggiunto persone e parole, e in mezzo a Richard Brautigan, Diane Di Prima, Anne Waldman, Robert Creely e tutti gli altri ritrovo un me stesso teenager spalanuvole. Sono convinto che quegli americani non immaginassero affatto che un po’ dell’aria mossa dal loro fiato giungesse dopo millemila chilometri fino alla mia stanza, ai confini dell’impero. C’è addirittura quel Jim Carroll che ho amato in versione disintossicata quand’era punk quasi come Patti Smith – ho sognato di giocarci insieme a pallacanestro, proprio io che mi muovo con l’agilità sportiva di una bestia morta.

– la “Lettera a chi non c’era” di Franco Arminio (www.bompiani.it), uscito a giugno. Il piatto rotto in copertina mi ha messo in allarme, e non ho detto niente. La nota d’avvio mi ha messo in allarme, e io non ho prestato attenzione. E anche le prime pagine mi hanno messo in allarme, e presto ho cominciato a capire perché. A ogni giro di pagina successivo mi suonavano dentro in testa la sirena dell’acqua alta e quella degli incidenti al Petrolchimico e quella dell’ambulanza che veniva a portare via mio padre di notte. Adoro quegli scrittori che ti mettono le mani addosso: ogni parola come neve che ti si appoggia sulle spalle e le carica di un peso lieve che non sai avvertire né quantificare, ogni parola goccia d’acqua che si insinua nelle tue crepe e arriva a minare i tuoi muri maestri. Mi piacerebbe incontrarlo, lui, restare ad ascoltarlo per ore e annegare in frantumi dentro a tutta l’acqua chiara che gli esce dalle labbra e dalle dita. Questo libro è magnetico e definitivo come un buco nero, mi ha scosso profondamente e faccio fatica a finirlo – dopo sei mesi oggi 1 gennaio 2022 sono arrivato, arrancando sui gomiti, solo a pagina 143.

– e facciamola, anche se di sponda, un’autopromozione. Un paio di anni fa scopro tra le pagine di Umanità Nova (umanitanova.org) una rubrica in cui l’autore, un ventenne evidentemente che si fa chiamare En-Ri.ot, cerca di annodare certi fili rossi che raccoglie seguendo l’istinto. Forse no, segue dei ragionamenti suoi: li cerca dentro ai testi delle canzoni senza preoccuparsi se queste sono cantate bene o stonate. Ne sceglie tre ogni volta, una playlist veloce di tre pallottole al cuore della storia di questi anni, quindi anche della mia storia. Mette insieme roba vecchia e musiche recenti, gente con sorrisi da copertina e brutte facce adatte a foto segnaletiche, nomi noti e gruppi mai sentiti, cercando di dare un senso a quello che dentro a quelle canzoni si canta. Una maniera piuttosto particolare di raccontare il presente. Quelli dell’ASFAI (www.asfai.info) gli propongono di raccogliere gli articoli in un libretto, e mi coinvolgono per realizzarlo. Suggerisco a En-Ri.ot di organizzare una compilation al contrario, di contattare cioè i vari gruppi e musicisti di cui si è occupato e chiedergli in prestito la canzone di cui ha analizzato il testo. Ne viene fuori “Note bandite”, uscito a ottobre e già finito (ristampatelo, dai). Uno di quei casi fortunati e felici dove ci si aggrega per una condivisione di ragionamenti invece che di gusti musicali comuni.

Fanno tredici, una per ciascun mese patafisico. Ma ce ne sono molte altre: la fanzine Germogli ad esempio (burningbungalow@gmail.com). Grazie per avermi ancora fatto posto qui. Grazie tantissime.

Presentazione: Kina Se ho Vinto Se ho Perso

Marco Pandin di stella * nera non sta fermò un momento!

Domenica 19 dicembre 2021, presso il circolo “Al Bafo” a Seriate (BG), sarà proiettato il film “Se ho Vinto Se ho Perso” sulla band anarcopunk dei Kina e Marco ne ha curato l’omonimo libro.

I Kina sono stati e sono uno dei gruppi più importanti dell’Hardcore Punk italiano. Nati nel 1982 ad Aosta, hanno suonato in Italia ed in Europa. Fedeli all’idea di antagonismo e del “fai da te”, fondarono assieme ai Franti l’etichetta discografica Blu Bus. Nel 2019 è uscito il docufilm “Se ho Vinto Se ho Perso”, ora nel 2021 stella * nera ha appena pubblicato un libro di circa sessanta pagine con testi, interviste e molte foto. Assieme al libro un CD con registrazioni del reunion tour del 2019 e in DVD il docufilm “Se ho Vinto Se ho Perso” diretto da Gian Luca Rossi.

La locandina: “Se ho Vinto Se ho Perso”

Il programma dell’Anarchist Bookfair.

Intervista ai curatori di Vennero in sella due gendarmi

Vennero in sella due gendarmi è una raccolta di scritti e musica curata per aiutare il fondo di difesa Genova Antifascista. I curatori sono Marco Pandin e Marco Sommariva, così ho pensato di sentire da loro come sta andando la situazione per supportare il fondo di difesa genovese.

Come sta proseguendo l’iniziativa?

Marco Sommariva: Alla grande: da sabato scorso 6 febbraio la prima tiratura è da considerarsi esaurita, e questo significa che è andata via in sole tre settimane. A giorni partirà la ristampa.
Marco Pandin: Vero, questa velocità di diffusione mi sorprende e mi rende felice. Ma la soddisfazione più grande è stata il rendersi conto della grande voglia di partecipare, di essere e di esserci, del desiderio di contribuire come possibile. Marco ed io abbiamo costruito questa rete di contatti senza avere un disegno o una strategia, sono bastati cinque-dieci minuti al telefono quindi neanche il tempo tecnico per metterci d’accordo. Abbiamo chiesto, fatto girare la voce. E non ne farei neanche una questione di comune orientamento politico, tanto siamo diversi – tutti. Penso che sia stato compreso a fondo il nostro spirito più autentico, la nostra voglia di fare qualcosa. Ho già curato altre raccolte nel passato, penso che sia la prima volta che nessuno tra i partecipanti mi abbia chiesto una qualche lista delle adesioni già pervenute – e questo trovo la dica lunga sull’atteggiamento di come ciascuno ha messo a disposizione la propria creatività senza chiedere niente in cambio.

Qual’è la tiratura di Vennero due gendarmi … ?

M. S.: 600 copie la prima tiratura, e di altre 600 sarà la seconda.

Avete agito su espressioni artistiche diverse: il disegno, la musica e la scrittura.

M. S.: Ogni forma d’arte può veicolare il messaggio antifascista, così come ognuno di noi può combattere quotidianamente ogni forma di fascismo, e se per caso avessimo difficoltà a identificare questo cancro che a volte s’insedia anche in famiglia, forse può aiutare ricordare cosa scrisse Pasolini nel ’74: “Se la parola fascismo significa la prepotenza del potere, la “società dei consumi” ha bene realizzato il fascismo”. E aggiungo che quello di combattere personalmente il fascismo, ogni giorno e in ogni luogo, è uno sforzo che dobbiamo fare perché, come scriveva Orwell, “Se sostenete che il fascismo è soltanto un’aberrazione che in breve tempo si esaurirà da sola, vi cullate in un sogno dal quale vi desterete nel momento in cui qualcuno vi darà una manganellata sulla testa”.
M. P.: Quando avevo vent’anni ho letto un volantino dei Crass dove c’era scritto press’a poco “La nostra arma più potente è la creatività”. Ero un fanzinaro, del genere non so cosa fare e come fare, ma lo faccio comunque. Col mio giro di amici di allora amavamo ascoltare musica, suonare, disegnare, scrivere, sognare – tutti pretesti per incontrare, conoscere, imparare, scambiare, confrontarsi, crescere. Ecco, quella frase mi ha colpito, ispirato ed accompagnato, ed ho cercato di farla mia anche nelle mie storie di tutti i giorni. Se ne ho ricavato un insegnamento? Direi che pensarla così è stato fondamentale per riuscire a sopravvivere nel posto di lavoro, per impostare la vita in casa e l’educazione dei figli. Per costruire una mentalità che sia condivisione, oltre che perenne capacità di meravigliarsi.

Come è stata accolta dai genovesi la raccolta per il fondo di difesa Genova Antifascista?

M. S.: Benissimo. Tutte le realtà antifasciste genovesi hanno acquistato numerose copie e, ne avessimo ancora a disposizione, ne acquisterebbero altre: abbiamo consegnato pacchi contenenti sino a 40 confezioni. Grande attenzione ci è stata dedicata anche dalle altre province liguri: Savona, Imperia e La Spezia. Ma l’iniziativa sta andando forte anche fuori dai confini regionali: tutta l’Italia s’è mossa, dal Friuli alla Calabria, dalla Sicilia al Piemonte, passando per la Sardegna.

Alla luce di quanto mi avete raccontato, come sarà il futuro?

M. S.: Dopo l’evoluzione della repressione che è passata dal “solo” picchiare coi manganelli al picchiare coi manganelli e sulle tasche degli antifascisti, ho l’impressione che il Sistema dovrà ulteriormente cambiare tattica per provare a mettere in ginocchio l’antifascismo, visto che – militanti e non – non ci hanno pensato su due volte a metter mano al portafogli per riempire la cassa che occorrerà a coprire le spese legali dei 56 denunciati per gli scontri di Piazza Corvetto, del maggio 2019. Per noi antifascisti il futuro è roseo, e non può essere diversamente dopo i “muscoli intellettuali” mostrati con questo doppio cd; lo vedo nero, invece, per chi sta dall’altra parte. Siamo tanti, uniti, preparati, e combattiamo su più livelli: noi abbiamo un futuro, questo è certo.
M. P.: Sorrido nel sentire Marco che parla così: parla come un disco di Franti, io tenderei a essere più introspettivo e pensoso come un disco dei Kina. Entrambi facevano però fiorire in cuore delle belle speranze, e non c’era bisogno di trucchi e travestimenti o slogan urlati dal palco. Miravano al cuore della gente, e hanno fatto centro. Quando ero ragazzo era stato creato questo mito del “non futuro” – coi Sex Pistols lo cantava buona parte del punk, e dopo gli anni di piombo e nel bel mezzo degli anni di televisione obbligatoria io lo trovavo opprimente e insostenibile. Il futuro c’era eccome, solo che bisognava farsi il culo per costruirlo. Una cosa che ho imparato in questi anni è che il “non futuro” era una trovata pubblicitaria per derubarci degli spiccioli e della speranza. Forse ho fatto bene allora ad ascoltare il cuore.

Si può richiedere la raccolta in 2CD, con offerta libera e responsabile a: Genova Antifascista

Si ascoltare l’intervista a Marco Sommariva per Genova Antifascista a cura di Gianluca Polverari su: Radio Città Aperta Podcast.

Contributi scritti di:

Erri de Luca, Giansandro Merli, Franco Arminio, Maurizio Maggiani, Fabio Geda, Paolo Cognetti, Haidi Gaggio Giuliani, Max Mauro, Alessandro Spinazzi, Carmine Mangone, Stefano Giaccone, Marco Sommariva

Contributi grafici di:

Zerocalcare, Gaia Cocchi, Fabio Santin, Chiara Sestili, Elia Fortunato, Federico Zenoni, Stefano Sommariva, Shinbross [Giulio Sciaccaluga], NicoComix

Le canzoni del doppio CD “Vennero in sella due gendarmi, vennero in sella con le armi”:
  1. Giorgio Canali – Genova per noi
  2. Andrea Sigona – La ballata dell’innocenza
  3. Yo Yo Mundi con Marco Rovelli – Anarcobaleno
  4. Ascanio Celestini – La camminata del moribondo
  5. Mars on Pluto – La violenza
  6. L’Estorio Drolo – La chansoun de Nadu
  7. Alessio Lega – Matteotti
  8. Banda POPolare dell’Emilia Rossa – Non mi scorderò di te
  9. Modena City Ramblers – La legge giusta
  10. Nuovo canzoniere Partigiano – Festa d’aprile
  11. Bandabardò – Tre passi avanti
  12. Lo ZOO di Berlino con Franco Fabbri – Pontelandolfo
  13. Gang – Marenostro
  14. Luca Bassanese – Il bombarolo
  15. Loris Vescovo – Sigur
  16. Simona Boo – Estate ’89 (Una storia dal mare)
  17. Paolo Capodacqua – I nidi degli uccelli
  18. Od Fulmine con Davide Toffolo – La verità
  19. Dany Franchi – Wanna know
  20. Franti – Quando me ne andrò
  21. Massimo Zamboni – Fine
  22. Umberto Maria Giardini – Molteplici e riflessi
  23. Subsonica – Preso blu
  24. Kina – Sabbie mobili
  25. Wu Ming Contigent – Peter Norman
  26. Daniele Sepe e i Fratelli della Costa – Cazzimmao (Pesciolini & pesci a brodo)
  27. Caparezza – L’uomo che premette
  28. Luca ‘O Zulù Persico – Bella ciao
  29. Mauràs – Majorana
  30. Signor K feat. ‘O Zulù – Corre forte la locomotiva
  31. Assalti Frontali – Roma meticcia
  32. Putan Club – Sens la mort
  33. Cesare Basile – Nesima rodeo
  34. Lalli e Stefano Risso – Le colline spezzate

Si può richiedere la raccolta in 2CD, con offerta libera e responsabile a: Genova Antifascista

Vennero in sella due gendarmi – 2CD per il fondo di difesa di Genova Antifascista

A Genova, il 23 maggio 2019, più di un migliaio di cittadini, si sono incontrati a Piazza Corvetto per esprimere la propria contrarietà ad un comizio di casa pound. Purtroppo ci fu una reazione spropositata delle forze dell’ordine verso il giornalista Stefano Origone di Repubblica e i partecipanti antifascisti. Il primo fu vittima e testimone delle violenze. Successivamente, agli altri sono arrivate 56 denunce e circa 60.000 euro di multe da pagare e quindi queste persone si dovranno difendere in tribunale dall’accusa di antifascismo. Una situazione, posso dire, paradossale.

Vennero in sella due gendarmi Copertina

Per dare una mano e per non far sentire soli, è nato un fondo di difesa e per sostenerlo Marco Pandin e Marco Sommariva hanno avuto l’idea di chiedere ad amici artisti un supporto. Musicisti, disegnatori, pittori, scrittori e performer hanno partecipato con una loro opera. Così è nata la raccolta in 2CD “Vennero in sella due gendarmi, vennero in sella con le armi“. Creata con il semplice passaparola, oltrepassando le distanze e gli stili espressivi dei partecipanti, ma con la volontà di unire la propria voce “in un coro di vibrante protesta“. I due Marco sono rimasti felici e anche un pochetto sorpresi da tutta questa solidarietà, per sostenere il fondo di difesa.

Tutti gli artisti, chi più o meno noto, hanno partecipato in maniera volontaria e del tutto gratuita. La raccolta è interessante e mi piace molto perché variegata, ma proprio dalla diversità di voci, suoni, disegni e parole, si respira un ossigeno vitale, che invita a non restare indifferenti. Un altro motivo per ascoltare “Vennero in sella due gendarmi, vennero in sella con le armi“, è che fra le canzoni vi sono parecchi inediti.
La copertina è una elaborazione grafica autorizzata di Zerocalcare e rappresenta un estintore, di tragica memoria: il G8 di Genova del 20 luglio del 2001.

Si può richiedere la raccolta in 2CD, con offerta libera e responsabile a: Marco Sommariva

Si ascoltare l’intervista a Marco Sommariva per Genova Antifascista a cura di Gianluca Polverari su: Radio Città Aperta Podcast.

Contributi scritti di:

Erri de Luca, Giansandro Merli, Franco Arminio, Maurizio Maggiani, Fabio Geda, Paolo Cognetti, Haidi Gaggio Giuliani, Max Mauro, Alessandro Spinazzi, Carmine Mangone, Stefano Giaccone, Marco Sommariva

Contributi grafici di:

Zerocalcare, Gaia Cocchi, Fabio Santin, Chiara Sestili, Elia Fortunato, Federico Zenoni, Stefano Sommariva, Shinbross [Giulio Sciaccaluga], NicoComix

Le canzoni del doppio CD “Vennero in sella due gendarmi, vennero in sella con le armi”:
  1. Giorgio Canali – Genova per noi
  2. Andrea Sigona – La ballata dell’innocenza
  3. Yo Yo Mundi con Marco Rovelli – Anarcobaleno
  4. Ascanio Celestini – La camminata del moribondo
  5. Mars on Pluto – La violenza
  6. L’Estorio Drolo – La chansoun de Nadu
  7. Alessio Lega – Matteotti
  8. Banda POPolare dell’Emilia Rossa – Non mi scorderò di te
  9. Modena City Ramblers – La legge giusta
  10. Nuovo canzoniere Partigiano – Festa d’aprile
  11. Bandabardò – Tre passi avanti
  12. Lo ZOO di Berlino con Franco Fabbri – Pontelandolfo
  13. Gang – Marenostro
  14. Luca Bassanese – Il bombarolo
  15. Loris Vescovo – Sigur
  16. Simona Boo – Estate ’89 (Una storia dal mare)
  17. Paolo Capodacqua – I nidi degli uccelli
  18. Od Fulmine con Davide Toffolo – La verità
  19. Dany Franchi – Wanna know
  20. Franti – Quando me ne andrò
  21. Massimo Zamboni – Fine
  22. Umberto Maria Giardini – Molteplici e riflessi
  23. Subsonica – Preso blu
  24. Kina – Sabbie mobili
  25. Wu Ming Contigent – Peter Norman
  26. Daniele Sepe e i Fratelli della Costa – Cazzimmao (Pesciolini & pesci a brodo)
  27. Caparezza – L’uomo che premette
  28. Luca ‘O Zulù Persico – Bella ciao
  29. Mauràs – Majorana
  30. Signor K feat. ‘O Zulù – Corre forte la locomotiva
  31. Assalti Frontali – Roma meticcia
  32. Putan Club – Sens la mort
  33. Cesare Basile – Nesima rodeo
  34. Lalli e Stefano Risso – Le colline spezzate

Si può richiedere la raccolta in 2CD, con offerta libera e responsabile a: Marco Sommariva

Dritti contro un muro: incontri e scontri anarcopunk a Verona

Dritti contro un muro Sobilla Verona 2015 anarcopunk logo

L’associazione culturale La Sobilla e la Biblioteca Giovanni Domaschi organizzano tre incontri sulla scena underground punk anarchica italiana degli anni’80. L’occasione è ghiotta perché ci saranno due presentazioni di libri e una proiezione del docufilm “Italian Punk Hardcore 1980-1989 The movie“.kina come macchine impazzite copertinaIl 13 febbraio Marco Pandin di stella*nera presenterà il libro “Come macchine impazzite – Il doppio spara dei Kina” di Giampiero Capra e Stephania Giacobone dedicato alla punk band dei Kina.

Giampiero Capra è stato il bassista e uno dei fondatori dei Kina, la punk band aostana. Lui e i suoi compagni hanno suonato in tutt’Italia e in Europa, durante gli anni ’80 e poco più in là. I Kina sono stati uno dei gruppi seminali della scena hardcore punk italiana, un intreccio fra musica, militanza e impegno politico.
Il libro ha la particolarità d’essere un racconto a due voci, quella di Giampiero e di Stephania. Il primo è un musicista impegnato fra la propria musica e la gestione delle autoproduzioni dei Kina e di altre gruppi, con l’etichetta Blu Bus. Stephania invece scoprì i Kina molti anni dopo, seguendo dei sentieri musicali ad Aosta. La musica dei Kina le fece compiere una formazione personale e un riscatto rispetto all’ambiente in cui viveva.

Sarà presente Marco Pandin amico e profondo conoscitore dei Kina. Marco fanzinaro negli anni Ottanta con Rockgarage ed editore indipendente, dal 1984 collabora stabilmente con A/Rivista Anarchica. Da trent’anni cura l’attività di stella*nera, non-etichetta discografica caratterizzata dalla scelta radicale di porsi “fuori mercato”.

I prossimi incontri saranno:

  • Giovedì 18 febbaio, ore 20.00 – BLACK HOLE: uno sguardo sull’underground italiano. Incontro con Turi Messineo, autore del volume (Eris edizioni 2015) + proiezione
  • Giovedì 25 febbraio, ore 20.00 – ITALIAN PUNK HARDCORE 1980-1989: The Movie di Angelo Bitonto, Giorgio S. Senesi, Roberto Sivilia (Italia 2015), proiezione
Riferimenti:
  • La Sobilla – Salita San Sepolcro, 6b – Verona
  • Guarda  e scarica la locandina dei tre incontri alla Sobilla:
    Dritti contro un muro Sobilla Verona 2016 anarcopunk punx punk sobilla, marco pandin, kina