IDLES 05 marzo 2024 Milano

Sempre potenti ed energetici gli Idles, gruppo inglese di Bristol, giunti al quinto album che hanno presentato durante il concerto. Resta quasi invariata la loro formula di “rock di protesta”: voce possente quasi “da stadio”, basso e batteria  ritmicamente ossessivi, mentre i due chitarristi si scatenano in un tornado chitarristico tipicamente “loro”. Dirante il concerto il cantanteJoe Talbot scandisce”Viva Palestina!“, più volte. Ogni volta è divertente vedere il gruppo inglese.

IDLES locandina Milano 05 03 2024

Damo Suziki è andato

Damo Suziki (1950 – 2024)

Damo Suziki è stato il cantante negli anni’70 dei Can, il gruppo sperimentale tedesco. Damo era uno spirito libero, un “giappo strambo”, era una presenza della musica passata,ma era ricco di possibilità di un tempo “altro”.

Lalli Stefano Risso – Qui

Lalli Stefano Risso Qui copertina

Lalli (cantautrice solista e fondatrice dei Franti) assieme al contrabassista Stefano Risso hanno scritto un bellissimo album fra musica d’autore e jazz intimista. La voce calda di Lalli canta e recita fra suoni essenziali che avvolgono l’ascoltatore. In questo disco Lalli e Stefano scelgono di raccontare le storie dentro le canzoni, facendo emergere un piccolo universo intimo ed articolato.

Lalli Stefano Risso Qui copertina interna

Per ricevere “Qui” di Lalli e Stefano Risso, potete rivolgervi a:
stella*nera oppure a Silentes

Sebastiano Effe – They, Whom the Gods Want to Destroy

Sebastiano Effe è un polistrumentista ed autore, nonché chitarrista dei Kailashnero. Oggi è stato rilasciato il suo album electro – ambient. Molto suggerito come ascolto.

Cose belle del 2023 di Marco Pandin

Anche quest’anno Marco Pandin mi ha scritto le 13 cose belle del 2023. E’ sempre un bel regalo questo appuntamento con Marco, giunto al terzo anno. Buona lettura, visione ed ascolto! Le cose belle degli anni precedenti sono qui: 2022 e 2021.

Tredici cose belle del 2023 partendo da zero, in ordine di accadimento. Perché tredici è indipendenza e creatività. Tredici è la rivolta di Lucifero.

0- L’album di debutto di Djim Radé (nome vero Djimradé Kamndoh), cantante e chitarrista del Ciad, uscito a gennaio. Dire che è bellissimo è praticamente come dire niente, sembra quasi di fargli un torto. Non so se nelle nostre lingue euroccidentali ci siano parole adatte a descrivere forme di vita sonora simili, così luminose pulsanti radianti vibranti da sembrare provenienti da un altro universo. Le canzoni non procedono lineari ma imprevedibili come salti quantici, ciascuna con l’anima in spalle: un carico pesante di felicità, oppure è malinconia, o un dolore enorme. Chissà che nessuno faccia sapere di questo disco a Brian Eno, sennò l’anno prossimo avremo uno Djim Radé in versione plastificata e disinnescata ad aprire per i Coldplay o per gli U2 – e per noi sarà come perdere un bosco, o un ghiacciaio.

1- “Trieste è bella di notte”, il docufilm di Andrea Segre, Matteo Calore e Stefano Collizzoli uscito verso fine gennaio e realizzato con il sostegno, tra gli altri, di Banca Etica, Amnesty International e Medici senza Frontiere [qui https://www.youtube.com/watch?v=bysxnO4XF9g il trailer]. Sembra una storia artificiale, e un po’ lo speri. E invece no. Mentre guardi ti si muove qualcosa dentro in testa e ti ritrovi a pensare: non può essere in Italia, queste cose da noi non succedono. E invece sì. Il ministero dell’interno definisce queste operazioni “riammissioni informali” e le ha introdotte nel maggio 2020. A gennaio 2021 il tribunale di Roma le ha dichiarate illegali e sono state sospese fino al 28 novembre 2022, quando il ministro Matteo Piantedosi le ha riattivate. La storia è grosso modo: alcuni migranti afghani e pakistani della rotta balcanica riescono ad attraversare la frontiera italiana ma a Trieste vengono intercettati e bloccati dalla polizia e subito respinti, senza che gli sia data alcuna possibilità di fare richiesta di asilo. I nostri li spintonano indietro in Slovenia, dove i colleghi li prendono in consegna e li accompagnano premurosamente in Croazia, lasciandoli tra le mani di sbirri che li derubano di tutto soldi vestiti telefonino e dignità, li pestano facendo particolare attenzione a rovinargli le gambe, poi li mollano di notte da qualche parte in Bosnia dietro ai reticolati. Qualcosa da mangiare se hanno fortuna la raccattano stando attenti alle mine seminate negli orti abbandonati, sennò cazzi loro – parlano tutt’altre lingue e fanno fatica a spiegarsi ma tanto non c’è nessuno che li ascolti. Con la Carta dei diritti umani i governanti – i nostri, i loro – ci si puliscono il culo.

2- Il libro “I gabbiani vengono tutti da Brooklyn” scritto da Ettore Castagna, uscito ad aprile. L’anarchico Giuseppe Zangara, emigrato in America da un piccolo paese della Calabria, nel febbraio 1933 si procurò una rivoltella e sparò cinque colpi contro Franklin Delano Roosevelt, simbolo del capitalismo che crea la sofferenza del mondo – li meditava da una vita. Non riuscì a farlo fuori: il presidente se la cavò con un po’ di spavento, ci furono due feriti leggeri e due in maniera più seria tra il pubblico. A uno di questi durante le cure in ospedale si infettò la ferita e sopravvenne la morte per setticemia, così che Zangara si ritrovò colpevole di omicidio: dopo un processo veloce finì arrostito sulla sedia elettrica. Aveva trentatre anni. Strappato prestissimo dal banco di scuola e cresciuto a cinghiate e bastonate, era basso di statura, scuro di carnagione e minuto di corporatura. Giuseppe si incazzò col giudice perché al processo storpiava il suo nome, e durante l’esecuzione incitò il boia a fare in fretta. Alle guardie in carcere disse che avrebbe voluto una fotografia: Ettore Castagna gliene ha scattata una di duecentocinquanta pagine, ritratto in piedi di un ragazzo cresciuto troppo in fretta che, come Franti, non abbassa lo sguardo e ride quando il re muore.

3- Padova, primi di maggio. L’ultraottantenne Ferruccio Brugnaro che all’uscita del cinema intrattiene amabilmente quelle pochissime fortunate persone che hanno assistito alla proiezione di “The beat bomb”, il docufilm di Ferdinando Vicentini Orgnani incentrato su Lawrence Ferlinghetti e Jack Hirschman, entrambi scomparsi nel 2021 [qui https://www.youtube.com/watch?v=4MjqHsNXgoE il trailer]. Il film in sé è un’occasione sprecata: poteva essere una di quelle celebrazioni così gonfie di pittoreschi talenti attempati e di contestatori eccentrici adatta a essere trasmessa, rigorosamente a notte fonda e solo una volta, su quello che resta di Rai3. E invece è una veglia dolcissima ricamata dal suono di Paolo Fresu che di funebre e di lacrimoso non ha davvero niente e che anzi è gioia, è stupore e speranza, è incanto come può esserlo un ritaglio d’erba risparmiato dal cemento e dall’asfalto rimasto testardamente a sfidare il grigio stretto fra i palazzoni. Brugnaro dei visionari beat è stato collega amico e compagno, anche lui è un gigante irriducibile quando si parla di pace, di condivisione disarmo e solidarietà: la sua voce non vacilla, le sue braccia affettuose fanno il giro della Terra. Mio padre, io ancora un ragazzino, portava a casa ogni tanto dei volantini ciclostilati che l’operaio poeta distribuiva davanti ai cancelli delle fabbriche di Marghera. Ciascuno di quei pezzi di carta esortava a riflettere, a ragionare, ad amare: erano un invito a partecipare a una rivoluzione difficile, distribuito a gente che non sapeva leggere o leggeva a malapena.

4- Filippo Gambetta che suona suona suona in una piccola sala nella Saccisica, nordest profondo, fine maggio. Mi piace come costruisce in diretta la setlist, svolazzando tra un’alessandrina e un valzer popolare che appagano i più rigorosi (quelli che di ogni danza stanno molto attenti alla storia, ai significati e ai dettagli di ogni singolo passo e movimento) e una bourrée a due tempi che accende il cuore a qualche giovanissima coppia che quando può frequenta le mazurke clandestine del bal folk. E’ come se ad ogni concerto Filippo portasse con sé un sacco stracolmo di pepite d’oro puro provenienti da ovunque: le riversa sul palco disordinatamente, ci spolvera sopra un pizzico dolce d’Irlanda o ci infila in mezzo un ritornello di Renato Carosone e una strofa di Modugno, una scheggia di lambada, quando non addirittura una partitura azzardata di Wolmer Beltrami. Dai, Filippo, fanne un’altra. E un’altra ancora. Perché poi se la gente sa, e la gente lo sa che sai suonare, suonare ti tocca. Per tutta la vita.

5- Lo Speakers’ Corner Quartet, che dopo tanti anni di attività on the road pubblica l’album di debutto “Further out than the edge” a giugno. Se i Franti fossero un gruppo di oggi immagino suonerebbero press’a poco così, attenti com’erano a inventare per noi quelle loro canzoni così storte ricche di suggestioni future e tracce evidenti del passato. Quello che fa l’SCQ non è jazz anche se gli somiglia parecchio, come non è hip hop non è rock non è popular non è ambient non è folk ma è tutto questo insieme ed è anche di più: un mondo intero di impressioni, ritagli, mescolanze, sapori strani, incroci, contaminazioni, profezie e avvistamenti lontani. Il gruppo è tutto preso a intrecciare un tappeto volante diverso sotto a ogni lettore/interprete/cantante ospite, tutte voci che vanno controcorrente da Kae Tempest a James Massiah a Sampah, in un pezzo il fiato benedetto di Shabaka Hutchings. Una felicità contagiosa e primaverile.

6- Marino Severini dei Gang che a giugno pubblica “Quel giorno dio era malato”. Ho respirato attraverso ogni singola pagina, e le ho accarezzate tutte. Mi è venuto spesso da ridere e da incazzarmi, e qualche volta sono diventato triste. Un paio di volte mi sono girati i coglioni e l’ho lasciato là, ma poi non riuscivo a stargli lontano. Nel libro c’è lui, la sua voce, i suoi santi, il suo mondo, la sua testa, le sue prediche, il suo modo di muovere le mani e di agitarsi, ma leggendo ho scoperto che dentro ci sono anch’io e c’è buona parte della canzone che anch’io ho cantato in tutti questi anni.

7- L’album “My back was a bridge for you to cross” di Antony/Anohni and the Johnsons uscito a luglio. Sembra una raccolta di certi quarantacinquegiri oscuri così incomprensibili, assurdi e terribilmente fuori posto da noi negli anni Sessanta e Settanta quando eravamo tutti all’oratorio e poi a strappare il porfido dalla strada e le zolle di terra dagli stadi, figuriamoci dopo – tutti occupati chi col punk chi coi Duranduran chi con l’eroina chi con le P38. Così esplicitamente stracarico di tenerezza, di affetto, così stracarico d’amore e di dopo l’amore. E di carezze, di intimità e sussurri, di leccate all’improvviso e risate, di baci, di voli alti, di immersioni e immensità, del toccarsi e dello stringersi vicini dopo ad ascoltarsi i respiri, di quell’aria tepida che esce dalle sue narici così vicine al tuo viso. Libertà è restare vicini, a dirsi piano cose che nessuno senta. Libertà è contare i battiti del cuore con la punta delle dita. Ma le canzoni (come la libertà) durano poco, bisogna correre a rimettere il disco daccapo (e a difenderla, ogni libertà conquistata, senza mai stancarsi). E ancora. E ancora.

8- Fine agosto. Sante Cutecchia e Francesco Massaro ad Urupia, in Salento, che suonano e raccontano con Mariagrazia Fiore una di quelle storie disperate ma così piccole piccole che non finiscono nei giornali né dentro le televisioni. E’ la storia di Dana e alcune altre ragazze slovene vittime dei rastrellamenti dei fascisti italiani e delle rappresaglie dei nazisti che, deportate nel 1942 dapprima a Venezia poi a Trani, riescono a resistere. Qualcuna riesce anche a ritornare a casa, e a raccontare. Trovo che la “Bella ciao” più bella sia quella delle mondine mescolata a quella dei partigiani cantata dal gruppo raccolto intorno a Riccardo Tesi qualche anno fa per la riproposizione dello spettacolo omonimo. A pari merito c’è quella offerta da Goran Bregovic e dalla sua Wedding and Funeral Orchestra, che mi ha davvero commosso. E c’è quella che ho sentito suonare dal vivo da Marc Ribot (nella versione presente nell’album “Songs of resistance” c’è la voce scartavetrante di Tom Waits). E c’è anche questa versione di Sante e Francesco, così sanguinante e oscura – ne sono rimasto profondamente toccato.

9- Uno che si fa chiamare Capitano Merletti e che di militare o di militaresco non ha proprio niente – una chitarra al posto del fucile, capelli lunghi, barba, braccialetti, sorrisi, tanti colori addosso. L’ho sentito cantare e suonare, assieme a un violinista assai bravo, al Mismash a Pordenone a inizio settembre. All’inizio temevo fosse una cosettina hippy fumogena tipica da campagna veneta rassegnata & sottomessa, e invece il capitano si rivela presto un campione di Razza Piave deviata, un degnissimo rappresentante di quella schiuma sociale intelligente così detestata dagli sceriffi e da certi sindaci neroverdi che eleggono da queste parti. Una di quelle preziosità che la nostra provincia tiene ben nascoste in serbo per sé – come una volta Plasticost, Frigidaire Tango, Detonazione, Degada Saf, Dimitri Golowaskin, Qfwfq, Wax Heroes, Endless Nostalgia, Death in Venice, Inzirli, Funkwagen tutti diamanti nordestini impossibili da addomesticare nel gregge della “nuova musica italiana” ufficiale e finiti col rusco o su ebay, che praticamente è uguale. Per ciascuna canzone del capitano si potrebbe trovare una rassomiglianza con qualche cosa di bello/bellissimo/bellissimissimo andato a depositarsi nel fondo dei ricordi. A fine concerto una versione da brivido di “The thoughts of Mary Jane” di Nick Drake con l’autore che dalla sua nuvola guarda giù, sorride e approva.

10- Paolo Cognetti che in coda a “Giù nella valle” (il suo quarto staordinario ottomila in pochi anni, uscito a ottobre) mi prende da parte e mi spiega perché “Nebraska” è così importante per me e perché ho continuato a comprare i dischi di Bruce Springsteen in tutti questi anni.

11- Sono in giro in Lombardia ai primi di novembre a proiettare il docufilm dei Kina e a raccontare qualche scheggia delle mie storie. Arrivo una sera al centrosociale Pacì Paciana di Bergamo e a un certo punto mi accorgo che i miei vicini di banchetto parlano una lingua che confina con la mia: sono padovani e mi mostrano un paio di dischi prodotti da loro. Ho solo un’idea vaga di che cosa ci possa essere dentro i solchi, ma trovo che quelle copertine siano realizzazioni grafiche davvero notevoli e decido di prenderli seguendo l’istinto. D’altra parte, tanti anni fa avevo comprato “Unknown pleasures” solo perché la copertina mi aveva incuriosito ed attratto come una stella cometa, allora i Joy Division mica li conosceva nessuno. Concerto collettivo stasera – i primi fanno un po’ sorridere, così giovani. I secondi in lista sono loro. Dagli qualche secondo di silenzio per concentrarsi e staccare la spina dal resto del mondo, e senza preallarme scoppia un’eruzione e mi ritrovo nel magma fino alle ginocchia. Tutto intorno è nero, e questo è il suono di tutto il nero che ci circonda oggi. Nero che chiama guerra, pioggia battente e grandine, che chiama deserto e febbre e sete, e ghiaccio, e pestilenza. Il nero dei pensieri che sbattono addosso alle pareti della testa cercando un’uscita, il nero delle porte sbarrate che ci tengono lontani da un qualche oggi da provare a costruirci intorno e un qualche domani da poter sognare. Musica ben immaginata e altrettanto bene eseguita che mi incendia l’anima – un misto di amarezza, consapevolezza, determinazione, radicalità e quella luce fioca là in fondo. Si chiamano Wojtek e la loro musica mi è saltata addosso e non mi molla. Il più bel concerto di quest’anno.

12- Tutta da guardare scavare toccare assaggiare, ciascuna pagina una boccata d’aria fresca e pulita. E’ uscito a novembre il numero 5 di Respiro, rivista di grafica, disegni e ragionamenti completamente autoprodotta e autogestita. I vari contributi sono volontari e non retribuiti, quanto raccolto va ad alimentare la cassa antirepressione delle Alpi Occidentali – aiutano cioè alcune ragazze e ragazzi che si trovano chiusi in galera perché hanno provato a ragionare con la propria testa, e che hanno bisogno di respirare come e quanto noi che per ora siamo ancora fuori. Respiro è quello che manca perché l’aria è avvelenata, perché un poliziotto ci schiaccia a terra incrinandoci le costole, o a schiacciarci a terra è il silenzio obbligatorio che viene imposto a chi non si rassegna ad ubbidire alla voce e al manganello del padrone.

13- Il meraviglioso videoclip di Carlo Cagnasso per “Le colline di fronte” di Lalli e Stefano Risso, uscito a dicembre e visibile seguendo il link https://www.youtube.com/watch?v=24e5nNz064A. Evito di proseguire perché da qui in poi saprei scrivere solo parole seguite da punti esclamativi, e potrebbe sembrare un’autopromozione eccessiva.

Lalli Stefano Risso Qui copertina interna
Lalli e Stefano Risso – Qui

La mia non classifica musicale del 2023

La mia non classifica musicale del 2023

Sarà che il tempo libero è sempre poco e vari eventi personali hanno richiesto priorità e precedenza. Poche parole quest’anno, ma buoni ascolti.

  • Arabia Saudade – Estudando a América do Sul
  • Gina Birch – I play my bass very loud
  • Blonde Redhead – Sit down for dinner
  • Vinicio Capossela – Tredici canzoni urgenti
  • PJ Harvey – I inside the old year dying
  • Lalli e Stefano Risso – Qui
  • Lol x Budgie x Jacknife Lee – Los Angeles
  • Public Image Ltd – End of world

La mia non classifica musicale annuale degli anni scorsi è qui.

Chi sono i Kailashnero?

Kailashnero

Chi sono i Kailashnero? Sono un gruppo veronese che ho visto dal vivo più volte e che mi piacciono molto. Sanno suonare e scrivono la “loro musica” completamente. Sanno di essere una piccola entità, ma vanno avanti per la loro strada, in una direzione personale e non allineata al pensiero comune. Si esprimono con canti di protesta, quindi ho chiesto a Svend di raccontare chi sono i Kailashnero.

Esiste una montagna dell’insorgenza, della ribellione agli “stati di cose”, al dominio collettivo e a quello intimo individuale, alle situazioni codificate di imperi e colonie accettate supinamente dall’abbaglio del “benessere”. Questa montagna si trova al centro del centro del mondo, il nostro, quello della musica. Un orrido che non ha ne’ longitudini ne’ soprattutto latitudini. È un A-centro che vive in ognuno di noi e che respira nero. Il kailash della ribellione parla di se’ stesso, quando attacca gli “scogli di fuoco” della realtà quotidiana di dominio dell’uomo sull’uomo per offendere ogni concretizzazione di privilegio castale, ogni stato d’obbligo e d’essere tendente alla sottomissione. Il kailash erutta senza essere un vulcano, nelle sensualità mitiche d’Apollonia, in un rapporto d’intrecci, mentre il tempo crolla in una pietra capovolta. Il kailash si copre di nuvole nere per cancellare ogni nome, preso nell’idolatria egoica dell’autoaffermazione, per ridonare colori d’invenzione agli occhi del sogno. Ma è proprio nella quotidianità del vivere che si fa’ strada la rabbia per i “detentori del censo”, chiusi nelle loro altezzose illusioni di ricchezze, anche tecnologiche, paradossalmente annullabili nella preparazione di un semplice “masala”. L’apice del “Gana Parvat” trasforma in cibo per gatti l’oro, la fionda, la cecità, il velo, la prigionia di chi non vive con passione, per indicare una vendetta degli ultimi contro chi lavora ad una pacificazione promossa dai “vincitori” di ogni credo e di ogni dove. Come le larve che si insinuano nei tessuti sociali, che ricoprono cariche inamovibili, che muovono e architettatano la “stabilità del loro personale potere d’oppressione”. Una ribellione di “morti dentro” che serpeggia dai cuori dei disillusi, degli sbagliati e dei vigliacchi, atta ad erodere impercettibilmente le spire del “drago imperatore” trascinato nell’implosione piroplastica dei “reietti per l’eternità”. E allora quel kailash, da quasi un secolo circondato all’occupazione militare dell’indifferenza, diviene la “montagna inespugnabile dell’Anarchia”, nera come le colate laviche dei vulcani, (questa volta sì) d’Islanda, pronti ad inghiottire costruzioni di dominio blustellate, invadenti e subordinate ad un “nuovo” ordine mondiale destinato a frantumarsi sulle note aggressive del Grande Nulla.

Riferimento: Kailashnero su Bandcamp.com

I Kailashnero sono:
Svend: Voce
Al Camuneros: Basso
Effe: Chitarra e Sintesi
Giribu: Chitarra e Voce
Lalo: Batteria

Parole: Svend
Musica: Kailashnero

Kailashnero – nuovo album autoprodotto

I veronesi Kailashnero hanno rilasciato da pochi giorni il loro primo omonimo album. Ho già visto due volte il gruppo dal vivo, sono davvero bravi ed intensi. A me piace molto il rock indipendente ed irruente di protesta: questo disco centra musicalmente molti temi politici e sociali degli ultimi tre anni. I testi di Svend, sono cantati in italiano. L’album è autoprodotto e registrato professionalmente, cin molta cura.

Riferimento: Kailashnero su Bandcamp.com

I Kailashnero sono:

Svend: Voce
Al Camuneros: Basso
Effe: Chitarra e Sintesi
Giribu: Chitarra e Voce
Lalo: Batteria

Parole: Svend
Musica: Kailashnero

Kailashnero Verona 16/07/2023

Kailashnero Verona 16/07/2023

I Kailashnero sono sempre più convincenti in concerto. Visti al Giarol Grande, a ridosso delle rive del fiume Adige a Verona. Sebbene il tardo pomeriggio estivo era afoso, il gruppo non si è risparmiato con il loro “rock popolare di protesta”. Il primo album autoprodotto è stato rilasciato nel durante il mese di settembre, seguirà un aggiornamento.

Riferimento: Kailashnero su Bandcamp.com

I Kailashnero sono:

Svend: Voce
Al Camuneros: Basso
Effe: Chitarra e Sintesi
Giribu: Chitarra e Voce
Lalo: Batteria

Parole: Svend
Musica: Kailashnero

Idles 13 luglio 2023 Igea Marina

Idles! Sono inglesi e suonano un punk rock molto energico. È la seconda volta che li vediamo, io e il mio amico Alb. Divertenti, ma anche impegnati nei testi: c’è una vena di protesta socio politica.

Bella il luogo del concerto: sulla spiaggia con il palco di fronte al mare.

Il gruppo che ha aperto per gli Idles, sono stati i The Murder Capital, gruppo irlandese di post punk. Non male, anche se dopo quattro brani ci hanno annoiato.