Il progetto sonoro F/ear this! intervista a Marco Pandin

F/ear this! A Collection Of Unheard Music, Unseen Images and Unwritten Words Inspired By Fear - yellow cover - copertina gialla

Ve li ricordate gli anni’80? Verso il 1986 e il 1987? In quel periodo c’era ancora lo scontro fra le due super potenze: gli U.S.A. e l’U.R.S.S. con lo spettro che accompagnava la corsa agli armamenti atomici. In Italia esisteva un modello di società meno libera: guidavano la democrazia cristiana e il partito socialista, gli anni di piombo erano appena trascorsi. Poco dopo accadde l’incidente nucleare a Chernobyl: “… un guasto terribile ad una centrale nucleare che distava da noi neanche un paio di giorni di viaggio: sembrava che i nostri incubi prendessero una qualche forma fisica…“. Un gruppo di giovani, fra Padova e Venezia, ebbe l’idea di mettere insieme, con il supporto e la collaborazione di amici musicisti, grafici e poeti sparsi un po’ ovunque, dei contributi collegati o collegabili ad un tema comune: la “paura”. Paura era un sentimento comune: “… facciamo qualcosa allora, cerchiamo di protestare, di alzare il volume. Cerchiamo di diffondere, di mobilitare, di passare la parola e condividere il senso di allarme. Eravamo un’accozzaglia di fanzinari e musicisti, ci siamo detti facciamo un disco …”. Marco Pandin, uno degli ideatori, ricorda così la scintilla che accese il doppio album del 1987 ” F/ear this! A Collection Of Unheard Music, Unseen Images and Unwritten Words Inspired By Fear “.

Quest’anno, finalmente, esce una riedizione in doppio CD e con libro, arricchita di brani e contenuti grafici in più. Musicalmente un doppio album molto interessante nella sua eterogeneità di stili musicali, drammaticamente attuale. I musicisti interpretano un sentimento così umano, raccontandolo in vari modi, tutti molto significativi e personali. Per me è stata una buona occasione per farmi raccontare da Marco la genesi di “F/ear this!” e le situazioni che lo crearono.

Domanda: Marco, per prima cosa, come stai ?

Risposta: Benone, per quanto possibile. Per fortuna mi piace leggere ed ascoltare musica, così le giornate in casa passano abbastanza velocemente. Ho dato una sistemata alla libreria e in mezzo al casino ho trovato dischi che neanche ricordavo di avere. Certo mi manca poter girare, ho promesso a un sacco di amici e compagni da Aosta a Bergamo a Perugia a Catania che andrò a trovarli appena finirà la peste.

D: Sei stato l’ideatore fra il 1986 e il 1987 del progetto grafico sonoro “F/Ear this!“, sbaglio o non nasce per caso?

R: La cosa da precisare subito è che non ero da solo: “F/Ear this!” è stato un lavoro collettivo, io ho soltanto messo insieme i pezzi.

D: Marco, il tuo recente passato era fatto di esperienze editoriali e discografiche indipendenti, “F/Ear this!” è un naturale proseguimento. Chi ti ha aiutato?

R: Tramite la fanzine Rockgarage col tempo avevamo messo in piedi un po’ di giro e preso contatti con altri ragazzi e gruppi attivi in città anche lontane da Venezia – ad esempio i Franti a Torino, i Diaframma a Firenze, gli Spleen Fix a Salerno. Siamo stati invitati dall’Arci ai primi Meeting delle etichette discografiche indipendenti a Firenze, dove s’è potuta incontrare parecchia gente anche di paesi stranieri, lo stand di Rockgarage era aperto e condiviso e attorno c’era sempre folla e casino. L’idea di fondo era sostenersi a vicenda, e questi intenti sono stati grossomodo mantenuti anche dopo la chiusura della fanzine. In questo caso specifico abbiamo provato a immaginare un progetto costruito attorno alla comune paura che si viveva dopo l’incidente di Chernobyl, paura che si veniva ad aggiungere all’inquinamento, all’AIDS, all’oppressione politica, agli euromissili. Ognuno ha contribuito come ha potuto e saputo fare. Abbiamo costituito un gruppo informale di individui e collettivi, fanzinari e musicisti, tutti pecore nere e tutti differenti come potevamo esserlo io e Giacomo Spazio, Franti e Detonazione, i Plasticost e la Trax. Al tempo era pratica diffusa raccogliere dei fondi tramite la musica, così abbiamo pensato di destinare il ricavato di “F/Ear this!” ad A/Rivista Anarchica perché da sempre in redazione avevano dimostrato nei nostri confronti – intendo noialtri fanzinari e varie bestie disperse – una certa simpatia ed apertura mentale senza trattarci come un fenomeno da baraccone.

D: Invece sono curioso di come siete riusciti a contattare tutti gli artisti, fra l’altro non solo italiani, visto che non c’era la posta elettronica o la rete Internet. Li conoscevi tutti?

R: Prima di internet c’era la posta tradizionale, c’erano il telefono e i fax, ci si incontrava di persona per strada, alle manifestazioni, ai raduni, ai concerti. Abbiamo fatto così – per passaparola. Non è stata affatto una cosa organizzata e pianificata, eppure direi che ha funzionato.

D: “F/Ear this!” non è solo una raccolta di canzoni e musiche ma vi sono opere grafiche e poesie, perché?

R: La musica dopo il Sessantotto è stata un collante sociale formidabile, noi siamo venuti dopo ma direi che è stato quello il nostro rumore di fondo – la controcultura hippy, il pacifismo, i poeti beat, le manifestazioni di protesta, Rock in Opposition, le canzoni di lotta. Nel mettere in piedi e soprattutto nel mantenere in piedi Rockgarage abbiamo avuto la fortuna di una mentalità aperta, nel senso che davvero non ce ne fregava assolutamente niente se uno suonava punk oppure dark oppure blues. A noi bastava suonare, bastava tirare fuori le parole e le canzoni da dentro senza doverci preoccupare della forma. Abbiamo organizzato dischi e concerti collettivi dove coesistevano sul vinile e sul palco generi espressivi distanti, Death in Venice e Funkwagen, Pitura Freska e Degada Saf per dire, e non è mai stato un problema per nessuno. Da ogni serata uscivamo tutti felici ed arricchiti, si montava il palco e si puliva la sala insieme, alla fine avanzava sempre abbastanza per una pizza e una birra insieme. Altrove non funzionava così, per dire al Virus di Milano suonavano solo gruppi punk perché in quell’aggregarsi milanese c’erano delle motivazioni differenti dalle nostre. Non avevamo un’identità da difendere, piuttosto ci si era accorti che dovevamo stare insieme per difenderci – in provincia la vita funzionava diversamente che nelle città grosse. Per tutto questo dentro a “F/Ear this!” c’è stato posto per chiunque avesse disegni da mostrare, parole da far leggere e canzoni o rumore da far ascoltare. Pensa che non abbiamo neanche scritto la lista dei partecipanti fuori in copertina.

F/ear this! A Collection Of Unheard Music, Unseen Images and Unwritten Words Inspired By Fear

D: Il gioco di parole contenuto nel titolo è tutt’ora d’impatto, come venne fuori?

R: Il titolo è frutto del genio di Vittore Baroni, che si è occupato anche della raccolta dei contributi grafici. Senti questo, e abbi paura di questo: facevamo sul serio senz’altro, ma ci piaceva divertirci.

D: Musicalmente vi sono gruppi di generi e stili differenti, eppure ascoltando “F/Ear this!” ho avuto l’impressione che tutto sia collegato.

R: C’è un sottofondo, sì. Non un filo rosso fisico e distinguibile, piuttosto un qualche cosa di rarefatto, come un’affinità di percezione che serpeggia fra le tracce. E’ stata la mia esperienza di fanzinaro, e ancora sono dell’idea che le varie etichette appiccicate sopra ai generi espressivi musicali siano un espediente per creare divisioni insormontabili fra ragazzi che invece naturalmente tenderebbero a cooperare.

D: Quale fu la tiratura dell’opera?

R: Abbiamo stampato 1200 copie su vinile e 500 cassette. Ad ogni doppio album era allegato un libretto, per le cassette ci si è arrangiati con fotocopie fatte di sfroso al lavoro perché non c’erano abbastanza soldi per pagare altri libretti alla tipografia.

D: Posso dire che la “paura” sembra non passare mai di moda…

R: Ogni tanto rifletto e mi viene da dire che abbiamo ristampato “F/Ear this!” nel momento più sbagliato. Però poi mi passa, e penso che sembra l’abbiamo fatto apposta.

D: Oggi, nel 2020 decidi di ristampare in un nuovo formato “F/Ear this!”. Noto che in questa edizione ci sono delle canzoni che non c’erano nel 1987.

R: Come dicevo prima allora si è lavorato di passaparola e i contatti con i partecipanti sono stati creati e mantenuti via posta tradizionale, adottando cioè una velocità di comunicazione che adesso viene considerata come inadeguata. Non ci si aspettava certo una risposta così voluminosa e complessa: all’inizio ci eravamo orientati su un album singolo, ma arrivavano sempre più contributi e si è arrivati ad un album doppio. Il problema è stato che a un certo punto avevamo quasi messo insieme le quattro facciate ma continuava ad arrivare roba. Parecchi nastri sono arrivati quando “F/Ear this!” era già stato pubblicato.

D: I dischi ora non sono facili da trovare, fra l’altro nei mercatini e in rete non costano poco.

R: A me sinceramente queste speculazioni non piacciono, così come non riesco proprio a comprendere come si possano spendere cifre assurde per un disco quando c’è tanta gente che fa fatica ad arrivare a fine mese. Sono un appassionato di musica, ogni tanto mi piace gironzolare per i negozi di vinile usato ma non arrivo a capire come si possa essere disposti a pagare che so quaranta-cinquanta euro per un vecchio disco… O cifre addirittura maggiori. Possedere, possedere, possedere: penso che si metta in moto dentro in testa un qualche meccanismo perverso, più che collezionisti mi sembrano degli accumulatori seriali, gente per cui la passione per la musica a un certo punto è diventata una nevrosi. Sono dell’idea che la musica vada distribuita e condivisa, non congelata in uno scaffale.

D: Oggi come avete pensato alla distribuzione? Anche nei canali della “musica liquida“?

R: Come ho già avuto modo di dire, stella*nera non è un’etichetta discografica. Le cose che facciamo non sono poste in vendita, quindi non avendo niente da vendere non abbiamo bisogno di affidarci ad un distributore commerciale. Inoltre, le nostre cose le offriamo in cambio di un’offerta libera e responsabile e ogni volta puntualizzo che offerta-libera-e-responsabile è diverso da un’elemosina. Anche grazie a spazi come questo riceviamo regolarmente parecchie richieste per lettera, e-mail, telefono e mandiamo pacchetti. Ogni tanto partecipiamo a qualche bookfair anarchico, oppure ci invitano a presentare i nostri lavori così la gente ha la possibilità di incontrarci. Delle copie delle cose che facciamo girano comunque anche in alcuni negozi di dischi e librerie, sono posti gestiti da persone amiche che nel tempo ci hanno sostenuto.

Copertina 2020 F/ear this! A Collection Of Unheard Music, Unseen Images and Unwritten Words Inspired By Fear

D: Mi piacerebbe conoscere qualche aneddoto sul materiale o sui contatti.

R: Grande parte del lavoro di digitalizzazione delle registrazioni è stata fatta da Marco Giaccaria, che ha uno studio casalingo ben attrezzato. Ero con lui quando abbiamo letto e registrato il master analogico originale, ad un primo esame le bobine si erano conservate abbastanza bene nonostante gli anni passati in cantina ed i ripetuti traslochi. Altre però erano purtroppo deteriorate e inutilizzabili, anzi alcune delle registrazioni che siamo riusciti a salvare sono la documentazione in tempo reale dell’ultimo scorrere del nastro sulla testina prima di sbriciolarsi. Le difficoltà di lettura hanno caratterizzato parecchio il contributo senza nome di Massimo Giacon e Mimì Colucci, e secondo me hanno aggiunto una certa drammaticità al pezzo dei 2+2=5, che non abbiamo poi tentato di ricostruire da vinile e abbiamo lasciato così. Purtroppo un bel po’ di roba, a volte neanche identificabile perché mancavano le indicazioni sulle scatole, è andata irrimediabilmente persa. L’idea di ristampare “F/Ear this!” è partita dal ritrovamento fortuito in garage di una cartellina finita dietro a uno scaffale, dentro c’erano le tavole originali di Vittore Baroni e il progetto di Franco Raffin di Rockgarage per la copertina – allora era stata scartata perché la vedevamo “un po’ troppo Joy Division”, si può essere più stupidi di così.

Collage di Annie Anxiety Crass F/ear this!

D: Per quanto riguarda la parte grafica mi piacciono molto i collage della poetessa Annie Anxiety del collettivo anarcopunk inglese dei Crass.

R: Avevo conosciuto Annie assolutamente per caso, pensa che neanche sapevo fosse lei. Ero stato con Gino Collelli degli Wops a Dial House per mostrare ai Crass le cose che facevamo e soprattutto per discutere del libro di traduzioni dei loro testi che poi ho pubblicato. Dopo una giornata passata a parlare principalmente con Phil, Penny e Gee, Gino ed io stavamo ritornando a piedi alla fermata della metropolitana quando a un certo punto accosta una macchina che ci offre un passaggio. Ho riconosciuto lei e il suo compagno (che era Pete Wright, bassista dei Crass) l’anno successivo durante un concerto a Nottingham. Ad Annie sarebbe piaciuto partecipare al convegno anarchico di Venezia, così ho organizzato una serie di date in giro per l’Italia press’a poco nello stesso periodo del convegno. In quei giorni abbiamo approfondito la nostra amicizia, così prima di ritornare a casa Annie mi ha regalato parecchi disegni suoi, collage, acquerelli, poesie scritte a mano e altre a macchina – al tempo avevo tradotto e raccolto un po’ di cose sue in un libretto che ho allegato ad una cassetta. Vittore ne ha utilizzato una parte per illustrare “F/Ear this!”.

D: La nuova edizione 2020 è sempre il frutto di un lavoro collettivo, vero?

Da qualche tempo stella*nera non è più un fatto personale, mi danno una mano alcuni compagni, gente che mi è sempre stata vicina in questi anni. Tra questi Dethector, Marco il pirata genovese, Miguel il montanaro, Franz nella zona rossa bergamasca. Abbiamo età e storie diverse, per questa ragione le nostre discussioni attorno ai progetti tendono ad incendiarsi. E’ bellissimo. Mi piace lavorare da solo, e l’ho fatto per tanto tempo, ma così in compagnia c’è senz’altro più gusto. Di recente abbiamo collaborato con Stefano Gentile di Silentes: questo per me è stato un avvicinarsi fortunato e felice, ci conosciamo dai tempi di Rockgarage – lui e suo fratello erano degli Hyxteria, uno dei primissimi gruppi punk veneti, e mandavano avanti la fanzine Nashville Skyline.

Per ricevere “F/ear this! A Collection Of Unheard Music, Unseen Images and Unwritten Words Inspired By Fear” potete rivolgervi a:

stella*nera oppure a Dethector oppure a Silentes

2+2=5 – Guang Zhou
Two Tone – Sometimes Timid / My Womb
Jane Dolman e Pete Wright – Fishes In Water
Giorgio Cantoni – Un anno nelle favelas

Per ricevere “F/ear this! A Collection Of Unheard Music, Unseen Images and Unwritten Words Inspired By Fear” potete rivolgervi a:

Plasticost concerto per il 30° anniversario

Plasticost locandina concerto Marostica VI 19 luglio 2013 30° anniversarioE’ con grande piacere e sorpresa che a Marostica (VI), il 19 luglio suoneranno i Plasticost per festeggiare il trentesimo anniversario dall’uscita del loro primo album.
Il gruppo fu una realtà particolare dell’allora panorama undeground italiano, perché grazie ai suoi pirotecnici live show di impostazione teatrale, ma non è purtroppo riuscito a farsi concretamente spazio in un mercato discografico forse intimidito dall’originalità dell’approccio; partita con uno stile di derivazione new wave, che ha trovato nella memorabile Canzone Dada di PLA’STICOST il suo più efficace manifesto.  [1]

Uno dei membri fondatori è Sergio Fox Volpato che ha già partecipato alle puntate dedicate di Eighty Blues ovvero non si esce vivi dagli anni ’80 e Perché dovevi registrare un vinile negli anni ’80?.

Vorrei aggiungere che Marco Pandin della fanzine Rockgarage me li descrisse come:

Anche i Plasticost dal vivo erano un’esperienza mistica: … ma credo siano stati l’unico gruppo blasfemo, pericoloso, anarchico, impossibile da afferrare. Altro che i mille gruppetti punk superanarchici.

Non mancate!

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1 Perché dovevi registrare un vinile negli anni ’80?

Teac Tascam 4 piste portatileRileggendo le interviste ai musicisti e ai fanzinari dell’underground musicale italiano, mi chiedevo che avventura era la registrazione di qualche traccia sonora negli anni ’80.
Produrre un supporto fonografico (vinile o cassetta audio) e poi che farne?
Chissà che impressione riuscire ad entrare per la prima volta in uno studio di registrazione, mentre il più delle volte si ricorreva ad un amico con gli apparati di recording come i Teac, registrando nel garage dove si provava con il gruppo.
E come facevano a racimolare i denari per pagare le sessioni di registrazione per il vinile? Come fare per promuoverlo?
Scegliere di fare tutto da soli (do it yourself) e venderlo nei luoghi dopo aver suonato per un concerto?
Oppure trovare dei distributori indipendenti o appoggiarsi alla rete dei circuiti delle fanzine e dei centri sociali? Aiutava essere recensiti da qualche rivista musicale?
Perché tutta questa urgenza ed agitazione per registrare un vinile?

Sicuramente è più facile registrare con le tecnologie odierne, la rete internet facilita la conoscenza e la condivisione della musica prodotta, però facciamoci raccontare le storie di chi negli anni ’80 ha prodotto musica indipendente in Italia.

Ecco le parole di Tony Face dei Not Moving, di Vittore Baroni (Trax, mailart ecc.), di Paolo Cesaretti della fanzine FREE e delle Industrie Discografiche Lacerba, di Fox dei Plasticost e di Alessandro Limonta della fanzine VM.

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Eighty Blues 3 ovvero non si esce vivi dagli anni’ 80 parte 3

Detonazione Dentro MeIn questo terzo post si uniscono altre voci dell’underground musicale italiano agli articoli precedenti. Raccontano quegli anni ’80 per arrivare fino ad oggi. Nelle loro parole non c’è solo la musica ma la consapevolezza d’aver vissuto gli anni ’80 con passione, intensità e di essere vivi, oggi, in modo o nell’altro.
La musica per loro è stata ed è tutt’ora un segnale di vita, un espressione umana e artistica.

Ecco le loro parole sugli anni ’80 e magari anche per leggere il presente.

→ Prosegui la lettura di Eighty Blues 3 ovvero non si esce vivi dagli anni’ 80 parte 3