Fanzine Tribal Cabaret n. 07

Fanzine Tribal Cabaret N. 07

Tribal Cabaret era una fanzine romana, dedicata alla musica post-punk e dark. Molto curata perché ci trovavi interviste ed articoli su gruppi stranieri ed italiani. Graficamente era identificabile, con certo gusto “dark”. Su Tribal Cabaret c’era allegata una compilation su nastro con gruppi italiani e non, spesso con brani inediti.
La bella notizia è che da poco è uscito il numero 07. Ho scritto ai due curatori Daniela Giombini e Dario Calfapietra per riceverla e fargli qualche domanda.

Tribal Cabaret N. 07 Dario Calfapietra Daniela Giombini

Domanda: Perché avete deciso di ricominciare a far uscire Tribal Cabaret?
Risposta: Quando ci siamo conosciuti scrivevamo entrambi per dei magazine musicali online e ci è venuto naturale iniziare a scrivere insieme, facendo interviste e recensendo concerti. Dagli archivi di Daniela sono poi uscite delle interviste e dei questionari fatti negli anni ’80 e mai pubblicati prima, persi com’erano in un limbo tra Tribal Cabaret e la sua collaborazione con Rockerilla. E’ stato in quel momento che abbiamo fantasticato su come sarebbe stato affascinante, ma anche anacronistico far uscire oggi quegli articoli inediti su una fanzine. L’idea di fare una fanzine pubblicata in maniera indipendente, però era talmente entusiasmante che ci siamo convinti a provarci, anche per dimostrare che c’è ancora oggi chi ha voglia di leggere di musica su carta stampata.

D: Il numero 07 com’è strutturato?
R: Per rimanere in sintonia col passato di Tribal Cabaret, abbiamo deciso di allegare al N.7 una compilation in cassetta intitolata An Ordinary Life of Lies and Bites col relativo booklet. La conferma che ci stavamo muovendo nella direzione giusta ci è venuta quando la Spittle Records di Firenze ha contattato Daniela per stampare su vinile The Other Side of Futurism, la compilation originariamente allegata al N.5 di Tribal Cabaret del 1984, allegandoci la ristampa di quel numero della fanzine.

D: Come avete scelto i gruppi che hanno partecipato ad “An Ordinary Life of Lies and Bites”?
R: Abbiamo contattato personalmente uno ad uno tutti quei gruppi, che in qualche modo già conoscevamo e che apprezzavamo spesso chiedendo un brano specifico che ci piaceva da inserire nella compilation. Siamo molto soddisfatti del risultato finale.

D: Siete ancora in contatto con i “vecchi” collaboratori? 
R: Certo, è rimasta l’amicizia e la reciproca stima. Abbiamo messo volentieri infatti un ringraziamento a Romano Pasquini e Rita Mandolini nella seconda di copertina. Romano è un musicista, mentre Rita è un artista.

D: Come è cambiato il modo di fare una fanzine rispetto agli anni’80?
R: Sicuramente il mondo intorno è cambiato e parecchio però è rimasta immutata la voglia di esprimere se stessi parlando liberamente della musica che più ci piace. Quindi a distanza di tanti anni gli ingredienti sono rimasti gli stessi: la passione, la curiosità, la cura per l’estetica a cui si é aggiunta una buona dose di esperienza che aiuta a fare le cose meglio. 

D: Lo stile grafico mi sembra mantenuto con impianti grafici attuali, forse è più facile ora far uscire una fanzine? 
R: Per noi era prioritario mantenere uno stile grafico come quello del passato che rispecchiasse l’estetica anni ’80 di Tribal Cabaret. Anche se oggi la grafica viene fatta al computer e non con colla, trasferibili, taglierino e macchina da scrivere, c’è voluto comunque parecchio tempo e tanto impegno per realizzare il nuovo numero della fanzine. Il risultato ci soddisfa in pieno e tutti i numerosi feedback che ci stanno arrivando ci confermano di aver fatto un buon lavoro.

D: Il modo di Tribal Cabaret di proporre gli articoli e le interviste è sempre stato personale e con una forte identità, vero? 
R: Beh, questo non dovremmo essere noi a dirlo. Sicuramente ora come allora c’è sempre stata una ricerca per intervistare gli artisti che ci piacciono e che stimiamo senza scendere a compromessi.

D: Se ne esce vivi dagli anni ’80? 
R: A distanza di tempo crediamo sia evidente il peso creativo e l’importanza che hanno avuto quegli anni. C’era un circuito indipendente composto da etichette, radio, piccole agenzie di booking, autoproduzioni e fanzine, a cui si aggiungevano i negozi di dischi di importazione, che sosteneva la scena underground.

D: Tribal Cabaret è stata riavviata con il vostro sodalizio collaborativo (Daniela & Dario)? 
R: Negli ultimi anni Daniela aveva già fatto qualche tentativo per far ripartire la fanzine ma poi non se ne era mai fatto nulla. Dario è stata la persona che ha portato la giusta determinazione per riprendere questa avventura. 

D: Ci sarà un seguito ? Ovvero un numero 08?
R: Certo, ci stiamo già lavorando e prevediamo di pubblicarlo in Primavera. Ci fa davvero piacere che la schiera dei collaboratori si è raddoppiata dato che diversi amici giornalisti si sono uniti volentieri alla famiglia di Tribal Cabaret.

D: Sono curioso, molto a dirla tutta. Una piccola anticipazione, per favore? 
R: Il nuovo numero avrà in allegato un’altra compilation di gruppi selezionati da noi ed in più ci sarà un mini CD di una band italiana. Dagli archivi di Daniela è uscita fuori un’altra intervista inedita fatta alla fine degli anni ’80 e mai pubblicata che farà parte del nuovo numero. Abbiamo intervistato poi il cantante di una band di Seattle, un’artista sperimentale italiana ed il frontman di un gruppo australiano. I nostri collaboratori stanno contribuendo con racconti, recensioni ed interviste, chi ad un sostenitore delle sottoculture e della scena indipendente e chi ad un musicista di una nota band americana del passato. Può bastare come anticipazione?
… direi proprio di sì!

I brani allegati a Tribal Cabaret N. 07 sono di ZAC, Dish, Not Moving L T D , Alex Dissuader, Svetlanas, Madonnatron, Kent Steedman, Plutonium Baby, Porcelain Raft, Marcello Fraioli, La Grazia Obliqua, Sonic Jesus.

Per ricevere il N. 07 di Tribal Cabaret con la cassetta allegata (Dic. 2022, 15€) e/o il N. 05 ristampato insieme al disco “The Other side of Futurism” in vinile basta scrivere a: tribalcabaretfanzine@gmail.com.

Cose belle del 2022 di Marco Pandin

Marco Pandin mi ha scritto le 13 cose belle del 2022. Sono sempre preziose per me, sono un bel regalo ed un appuntamento per rinnovare l’affetto e l’amicizia che ci lega. Penso siano importanti ed interessanti da leggere, del resto come quelle del 2021. Buona lettura, visione ed ascolto.

13 cose belle di Marco Pandin

Tredici cose belle del 2022.

Libri riviste dischi concerti incontri in ordine sparso, forse in ordine di temperatura. Tredici perché questo numero accende la superstizione.

– L’album “Solace” dell’irlandese Patrick Dexter, uscito in primavera. Musica immaginata e offerta da tutt’altro punto di vista [qui https://www.youtube.com/watch?v=YVDlIaRagCI un assaggio]. Registrata all’aperto verosimilmente lontano dalla città, nei microfoni entrano il violoncello e il fruscio disturbante dei ragionamenti a proposito della pandemia, ma anche il respiro del musicista e quello dello strumento, e l’aria che si sposta, e il canto degli uccelli, gli insetti curiosi che si avvicinano ai microfoni, le foglie sugli alberi e il va e vieni delle nuvole sullo sfondo. Manca solo il cane dei vicini, ma potrebbe anche esserci e non ci si fa proprio caso. Fa sorridere e insieme riflettere che venga pubblicato oggi un disco immaginato e realizzato in questo modo biologico e naturale e pacifico dopo decenni di battaglie sanguinose per conquistare artificialmente in studio il silenzio su cui costruire e far risaltare il suono nella sua purezza più glaciale. Ma così sembra tutto più caldo ed umano, e attraverso le orecchie senti il sole che ti entra sotto la pelle, e con lui in punta di piedi entrano tutto il verde dell’erba e l’azzurro del cielo e i sussurri delle api a risvegliare ogni amore di ogni bestia che tieni nascosta dentro. Addormentarsi in compagnia di questo disco è bellissimo. Lasciatelo proseguire, perché risvegliarsi mentre suona questo disco è, se possibile, ancora più bello ed appagante.

Toni Bruna che a mezzanotte canta e suona e racconta storie davanti al teatro Miela di Trieste, metà marzo. Al suo concerto quella sera erano rimaste fuori parecchie persone senza biglietto e senza green pass – e non era giusto. Così a un certo punto ha detto due parole, ha abbandonato il palco e la sala e si è messo lì fuori a fare il busker, davanti a cento e più anime in fiamme nonostante il borino. Cosa vi posso dire io di quelle sue canzoni di confine, che raccontano di gente rimasta sola e di posti rimasti soli senza la gente. Così esili, fatte d’acqua e d’aria, così leggere ad attraversare in volo le nostre discussioni e ragionamenti, i campi di grano e di battaglia, nazioni in conflitto e conflitti televisivi, le dogane, i cimiteri, il mare. Sono canzoni di costituzione fragile, che sembrano poco adatte a cantare di resistenze e rivoluzioni, eppure ciascuna si rivela come un modo diverso e inedito di parlare d’amore. Gli chiedo come fa, lui dice che le parole gli escono fuori così e non sa come mai. Adoro come fa strisciare le dita sulle corde della chitarra quando cambia gli accordi: è proprio lo stesso rumore che ho dentro in testa ogni volta che cambio idea, quando mi nasce un’idea nuova.

– l’album “Afrikan culture” di Shabaka Hutchings, uscito poco prima dell’estate, è uno di quei dischi che ti alzano di un metro o due da terra e ti lasciano là. All’inizio sembra quasi che si siano sbagliati e che dentro la copertina sia finito un disco di Stephan Micus. L’ha pubblicato una major, forse si saranno sbagliati anche loro – avranno creduto fosse jazz da vendere ai bancari. Nei negozi lo vendono ai bancari come jazz. E invece dentro ci sono i leoni, le terre perse, le schegge della mezzanotte, le barene dove non sei in terra né in acqua, i posti inesplorati che stanno dopo l’ultima fermata dell’autobus. Un continente intero di suggestioni compresso in una mezz’ora scarsa. Un’eruzione esplosiva di spiriti e presenze, migliaia e migliaia di metri cubi di rovente ispirazione ancestrale rilasciati nell’atmosfera. Tutt’altro che un documentario, una mappa o una profezia, o forse le tre cose insieme. Sono andato a rileggermi Iosif Brodskij che raccontava la precarietà dell’equilibrio e l’allarme dei sensi durante un viaggio in vaporetto, lui abituato com’era alla terraferma e al freddo. Un lavoro di una bellezza sconfinata e irraccontabile questo di Hutchings – e infatti è un po’ che sono qui che scrivo e cancello e riscrivo e cancello ancora queste ultime due tre righe senza trovare niente che si avvicini alle onde alte che mi si agitano nello stomaco e dietro gli occhi. Se esistono gli dei, li trovi sui vaporetti verso Castello e hanno di certo questo disco piazzato in loop perpetuo dentro i loro walkman.

– le ultime poesie di Gregory Corso, raccolte in “The golden dot” e stampate da Lithic Press in agosto [info e richieste qui www.lithicpress.com]. Molte sono senza titolo, solo la prima è al suo posto e forse anche la seconda mentre tutte le altre sono in ordine casuale – come voleva lui. Sono un viaggio che si trascina dentro gli anni che seguono la morte del suo amico e mentore Allen Ginsberg, viaggio tormentato dalla depressione e da reiterati disastri di salute e che si chiude con la morte di Corso avvenuta nel gennaio del millennio nuovo che lui desiderava fortemente toccare con le dita. Figlio di due minorenni poverissimi di origine italiana e presto abbandonato, aveva passato l’infanzia tra orfanotrofi e affidamenti temporanei, e l’adolescenza tra la strada e il riformatorio. E’ finito dietro le sbarre a diciassette anni per aver rubato di che vestirsi – messa così somiglia a una storia di quelle che raccontano in chiesa. E’ nella biblioteca del carcere che Gregory trova ispirazione e riscatto, i suoi compagni di prigionia sono i suoi angeli. Nel libro i curatori spiegano perché ci siano voluti vent’anni per pubblicare queste righe preziose. Corso è uno dei miei poeti preferiti. Nell’estate del 1980 ho avuto la fortuna e il privilegio di assistere a una sua breve lettura: indossava la divisa dello sbruffone, ma nascosto sotto c’era uno spirito sensibile che continuava a meravigliarsi della sua popolarità, e a temerla – come temeva la solitudine.

– il docufilm “Po” di Andrea Segre e Gian Antonio Stella uscito nelle sale a marzo [qui https://www.youtube.com/watch?v=FT4tyi9H7g8 un estratto]. Un’ora e mezza di accelerazioni e strattoni del cuore durante la quale ho messo a confronto le immagini che mi scorrevano dinanzi con i racconti dei miei genitori e dei miei nonni. Storie di quando non ero ancora nato, successe per davvero solamente qualche anno prima dal mio arrivo e che però ho sempre immaginato leggende da chissà quale passato remoto, il tutto filtrato attraverso la mia esperienza piccola – l’acqua granda del 1966 che ancora ricordo distintamente. Sono le storie minime tipiche della gente povera, fatte di roba poco consistente come schegge, calcinacci, segni sui muri, attimi, polvere, gocce, illusioni, e qualche cosa grossa che non si dimentica come la condivisione, la speranza, le parole che guariscono e il sostegno reciproco. Storie dove a volte basta solo un sorriso per squarciare la nebbia più nera e alleggerire il carico grave della miseria. Il documentario racconta una cosa importante, che è poi la stessa che aveva insegnato il grande vecchio Mario Rigoni Stern: è solo soffermandosi ad ascoltare e raccogliere tutte le piccole storie che la Storia può meritarsi un’iniziale maiuscola orgogliosa e fiera e che perdura. Poi però nei libri va a finire quell’altra, quella che insegnano a brandelli nelle scuole e omogeneizzata dentro le televisioni e che io scrivo apposta in minuscolo: storia che ha la stessa voce del padrone e viene descritta invariabilmente da quelli che hanno imparato a scrivere sotto la dettatura feroce di chi ha vinto.

– Tiziano Sgarbi che canta in una piccola corte giù sotto casa prima di un suo amico olandese, ai primi di giugno. Senza amplificazione, senza microfono, senza segreti e senza mi cantino. Non lo vedevo da un po’, da quando si faceva chiamare Bob Corn: quei vestiti che nascondono male la sua magrezza, il grigio dei capelli che non riesce ad annacquare la sua determinazione, la sua irrequietezza inossidabile al tempo che passa. Stiamo parlando di uno che ha impastato con le sue mani la scena indipendente del nostro paese, giusto per puntualizzare. Fa solo pochi pezzi, uno è di Will Oldham un altro non ricordo di chi. A un certo punto racconta “La mela di Odessa” e io vado in frantumi, e mentre sono là che cerco di raccogliere i pezzi da terra mi accorgo che il peso di questi anni di ciarpame new wave pop punk non è affatto riuscito a schiacciarmi. E nonostante la musica leggerissima che cola giù dalle radioline e dai telefonini del mondo intero io ritrovo respiro, e ritrovo aria, e ritrovo luce e voglia, e mi ricarico di salute, di propositi, di energia buona, di futuri possibili. Il suo amico olandese è Zea cioè Arnold De Boer cioè cazzo il cantante degli Ex – che per me significa ritrovarmi ad abbracciare quella persona che per anni mi ha tenuto per mano e sorretto mentre ero preso a non affogare nella sfiga, ma che ho solamente potuto intravedere di sfuggita dentro ai dischi. E invece di dirgli grazie e raccontargli tutto riesco solo a restarmene là col respiro sospeso, gli occhi umidi e le parole incastrate in gola.

– la performance di Path in apertura del concerto degli Ombra al Tank di Bologna, verso metà aprile. Luci basse e odore acre di disordine misto a birra spanta, come il giorno dopo un party. Eccolo che entra, lupo grigio che neanche si guarda intorno, in un attimo è già sul palco. Tiene lo sguardo raso terra sì, ma dai denti gli escono versi roventi e le parole sono pallottole. E’ così abile che neanche prende la mira: al primo pezzo ero là stordito, mi ha fatto fuori al secondo. Me li vedo già tutti quei miei amici sapienti e criticoni, quelli che si annoiano perché hanno ormai già ascoltato e capito tutto, a disquisire sulle percentuali di Woody Guthrie e di Billy Bragg dosate dentro a questa voce giovane. Voglio tanto bene a Woody e a Billy ma lasciamoli stare dove sono per carità, per me è Path e basta. Path che canta quelle sue canzoni arruffate e con poca speranza dentro cui ho ritrovato un pezzo di me, ed è un pezzo che sanguina forte: mi guarda fisso negli occhi e non sorride affatto.

– il libro “La Resistenza in 100 canti” curato da Alessio Lega uscito ad aprile [cercatelo qui www.mimesisedizioni.it oppure qui www.alessiolega.it]. Duecentocinquanta pagine abbondanti. Un mattone, e bello pesante, che può venire utile: prendendo con attenzione la mira lo si può scagliare contro le finestre pulite dei palazzi di chi comanda. Il mio caro amico e fratello e compagno salentino ha raccolto una serie di scritti commoventi, offrendo per ciascuna canzone una bella storia che ha per protagonisti ragazze e ragazzi disposti a sacrificare sé stessi e il loro futuro piuttosto che vivere senza libertà. E sono storie vere, pensate: c’è gente che si è addirittura fatta ammazzare per permettere a me e a voi di cantare. Lo si dovrebbe far circolare nelle scuole per educare i bambini alla solidarietà e alla gentilezza, e invece è un libro che davvero non ha posto in questo paese di sottosegretari e memorie tagliate corte.

– il concerto di Silva Cantele a.k.a. Phill Reynolds in un quartiere défavorisée a Padova, fine luglio [qui https://www.youtube.com/watch?v=0IW_WG25YtM una scheggia dimostrativa]. Ho abitato proprio lì vicino per quasi dieci anni, solo qualche strada più in là verso la stazione dei treni, e per i trent’anni precedenti a Mestre – una periferia anonima e qualsiasi grigioscura di rassegnazione e avvelenata di cemento armato, asfalto e smog. L’Arcella è uno di quei posti lontani dalle passeggiate delle domeniche perbene che i quotidiani e le televisioni locali raccontano sempre e soltanto in termini di disagio, malessere, maleducazione e insofferenza, eppure c’è parecchia gente intorno che smette presto di guardare i telefonini chiacchierare e bere birra, si avvicina e ascolta con attenzione. Questa sera Silva presenta “A ride”, il nuovo lavoro appena pubblicato: storie di strada, di fuga, di sbarre, di pioggia dura che cade. Usa la chitarra come se imbracciasse un fucile, lei ricambia le sue carezze muorendogli d’amore tra le mani. Ogni tanto la maltratta (per il bis la prende a schiaffi ottenendo in cambio una “Ring of fire” da urlo), ci annoda sopra arpeggi irregolari e urgenti e scattosi. Lo so bene che bestemmio, e chissenefrega, ma stasera mi sembra proprio come Johnny Cash quella volta a Folsom o a San Quentin per i carcerati – una rasoiata ogni rima, un calcio sui coglioni ogni strofa, ogni ritornello un chiodo che ti striscia sulla schiena e si conficca fra le costole.

– il concerto dei Caged al CS Brigata di Imola, maggio. Stavamo mangiando allo stesso tavolo – figuriamoci, io avevo appena conosciuto Serena la batterista ma stavamo parlando di tutt’altro, mezz’ora prima manco sapevo che con quegli altri ci suonasse insieme. Si chiacchiera, loro tutti belle facce, svegli, bravi, simpatici. Una compagnia piacevole in un posto accogliente e che funziona bene – cosa chiedere di più. Al nostro tavolo si aggiungono altre ragazze e ragazzi. Tanti auguri a Berto il tecnico tuttofare – torta di compleanno a sorpresa, si fa un pezzetto ciascuno. Neanche due minuti dopo tocca a loro. Attaccano – e nel senso guerresco e incendiario della parola. Cazzo, che impatto: decisi, precisi, martellanti e determinati – tengono il livello della tensione sempre molto alto proprio come voglio io nei miei desideri sonori più sporchi. Un torrente di lava che brucia tutto, che travolge e butta giù tutto ma che lascia dietro sé terreno nuovo e vivo. A fine concerto mi fiondo a ringraziarli mostrando tutto il mio stupore e la mia ammirazione, loro sorridono e il cantante si schermisce e mi chiede scusa perché è sudato.

– il fumetto “Our true colors” di Gengoroh Tagame, tradotto in italiano e pubblicato da Panini a giugno [sito ufficiale qui www.tagame.org, ma non cliccateci sopra se siete impressionabili]. Alcune cose del medesimo autore le trovate tradotte in inglese, francese e spagnolo nei formati per e-book. In italiano c’è poco o niente: nelle librerie più fornite e online ci sono soltanto quest’ultima opera e il precedente volume “Il marito di mio fratello” (2017), pubblicato sempre da Panini. Va anche detto che questi bara non sono cose da leggere disinvoltamente in treno o nella sala d’aspetto del medico di base, per cui capisco quanto sia difficile prodigarsi a diffondere i lavori di questo mitico disegnatore giapponese. Quarant’anni di carriera che lo hanno fatto divenire un riferimento internazionale. Cazzi e culi spremuti dentro a dozzine di storie esplicite, ciascuna un vero e proprio monumento grafico alla sopraffazione, storie d’amore passate attraverso un distorsore dentro alle quali come minimo ci si pesta duro e ci si fa male – “The house of brutes” e “The silver flower” le più drammatiche. Nei lavori più recenti di Tagame attraverso le tavole i gemiti e i fluidi corporei si fa però largo spazio a sentimenti, ragionamenti e condivisione. Dove ne “Il marito di mio fratello” il centro della riflessione è una ridiscussione della forma e della funzione sociale della struttura familiare, in “Our colors” ci si concentra sulle difficoltà e le fragilità dell’adolescenza e sul processo lento e delicato di costruzione dell’identità. Trovo siano entrambi dei libri da far leggere ai ragazzini, anzi che siano libri da leggere assieme ai ragazzini essendo disposti ad affrontare domande spinose e a dare risposte guardandoli in faccia. Libri che accendono arcobaleni in cielo e nel cuore, e migliorano questo mondo.

– i Nêuvegramme che suonano al Raindogs di Savona, metà giugno. Sì d’accordo il loro disco nuovo “L’inesausta tensione” è breve ma ben fatto e ben strutturato, suoni curati e parecchia attenzione ai dettagli – un’autoproduzione a cinque stelle. Ma ciò che esce e soprattutto ciò che mi resta dentro da questa performance è davvero tutt’altra cosa, non so se riesco a prenderne le misure. Il concerto è complicato e stupefacente e mi accende in testa tanti pensieri e altrettanti ricordi. Mi piace che dal palco non facciano prediche né promesse. Diversamente da quanto facevamo noi una volta, incontro sempre più spesso dei giovani musicisti che si impegnano a studiare, a leggere, ad esercitarsi, a conoscere, a ragionare prima di salire su un palco o di mettersi a registrare. A cose così noi allora generalmente non ci si pensava, tutti quei nostri discorsi sulla spontaneità e sull’improvvisazione che così spesso erano solo maschere appiccicate alla faccia della nostra inadeguatezza. Penso che se i Nêuvegramme ci fossero stati quarant’anni fa avrebbero polverizzato la scena, e forse proprio per questa ragione credo sia meglio se ne stiano a suonare le loro cose in quest’oggi, in questo presente, forse in qualche modo vagamente debitori al punk di allora ma culturalmente lontanissimi dai sedicenti combattenti del passato – guarda che fine di merda hanno (…abbiamo) fatto. Penso che la musica nuova per mantenersi viva e diffondere amore e ispirazione debba tenersi lontana anche dalle corse dei cani e dai raduni dove si arriva a conquistare un quarto d’ora sotto i riflettori giocando sporco al massacro contro altri ragazzi che hanno la sola colpa di condividere i tuoi stessi desideri. E penso anche che questo sia il più bel concerto a cui ho assistito quest’anno (facciamo a pari merito con i canadesi Godspeed You Black Emperor a Bologna a ottobre, dai).

– “Designing riots”, rivista illustrata per canaglie, tre numeri usciti fra febbraio e settembre. Formato tascabile, tutti belli da guardare e molto istruttivi da leggere – estrapolo una frase a caso: “Usa la tua creatività: i nostri nemici sono privi di fantasia, prevedibili, reagiscono in modo meccanico e di fronte alla novità sono spesso impreparati…”. Sembrano le note che farcivano uno qualsiasi degli ultimi dischi dei Crass, periodo Stop the City – al tempo si pensava diffusamente che rispetto all’hc americano muscoloso e palle in mostra quei poveri hippies vegetariani fossero sbiaditi e patetici, ma quello che i Crass urlavano si è poi rivelato essere il nostro presente e la nostra normalità merdosa di questi anni. Poche pagine ogni numero, una quarantina, che dire dense di ispirazione è riduttivo. Ognuna un manuale di istruzioni per come muoversi per le strade in consapevolezza e in sicurezza che potrebbe tornare utile e, metti che succeda un’altra Diaz, rivelarsi prezioso in uno qualsiasi di questi giorni di governo nuovo.

– il film “Margini” diretto da Niccolò Falsetti, uscito in sala a settembre [qui https://www.youtube.com/watch?v=LZUVlzIPltY il trailer ufficiale]. Raccontata con le parole che ci abitano abitualmente in bocca, è la storia di quando i sogni sono troppo grandi per essere compresi dalla realtà delle cose, dalla cosiddetta normalità. Eppure senza sogni, soprattutto senza grandi sogni, la vita non va avanti – è che a un certo punto tanti smettono e si chiudono in casa, ordinano pizze e sushi che qualcuno gli porta in cambio di uno scontrino e di un’elemosina, e sprecano ore di vita fra TikTok e YouTube. Per farla breve e senza spoilerare troppo il film racconta la storia di tre amici che suonano in un gruppo e si sbattono per restare a galla dentro a una provincia immobile. La musica è il collante che tiene insieme loro e l’intera loro rete di relazioni e di amori, tutti bellissimi e tutti disperati. Sembra che anneghino nella sfiga, in verità stanno conquistando la loro vita colpo su colpo finendo ciascuno col piantare una bandiera nera a sventolare sulla vetta. “Margini” racconta cose che sono successe spesso e ovunque, e ridotte presto al silenzio e all’oblio, già da poco dopo la metà degli anni Ottanta in una qualsiasi periferia occidentale. E’ proprio vero: per certi sogni smisurati qui fuori, qui nel mondo dove finiscono le pacchie, non c’è affatto posto.

Mi aggancio a quest’ultimo pezzo. La cosa più bella di quest’anno me l’hanno regalata dei miei vecchi compagni. Nel corso del 2021 avevo curato un libro/cd/dvd dei Kina, che poi nel 2022 abbiamo presentato e discusso in giro: ecco, girare a fare presentazioni e proiezioni con Gianpiero e Sergio e gli altri mi ha restituito quello che la sfortuna tanti anni fa mi aveva portato via. Col pretesto di questi incontri ho avvicinato ragazze e ragazzi meravigliosi che si fanno un culo della madonna per mantenere aperti e puliti e funzionanti degli spazi liberi. Quando avevo vent’anni dai palchi volevano convincermi che il futuro non ci fosse più: era gente già ricca che voleva anche i miei soldi, era gente grigia e spenta che voleva i miei sogni, era gente già morta che voleva la mia giovinezza. Non gli ho creduto affatto, perché pensavo che il mio futuro dipendesse per grande parte da me, ed è bellissimo rendersi conto oggi a 65 anni suonati (ma non è stata una scoperta tardiva, quanto una serie di conferme giunte nel corso del tempo) che valeva la pena non arrendersi e sbattersi e lottare, e che non ho affatto finito di imparare, di conoscere, di avvicinare, scambiare, migliorare. Grazie a tutti voi che mi state allungando e rendendo così dolce e interessante la vita. Dico a voi. Siete voi il futuro, adesso. Guardatevi, come siete belli.

Ostrega, sono quattordici. Non vale. Grazie per avermi ancora fatto posto qui. Grazie tantissime.

Marco Pandin
stella_nera@tin.it

Eighty Blues: ovvero non si esce vivi dagli anni ’80

Andrea/Kikkakonekka è uno dei blogger che seguo e poco tempo fa, scopro che collaborò ad una fanzine verso la fine degli anni ’80. Mi interessa la storia di chi riusciva a fare qualcosa dalla propria passione musicale, collaborando a delle autoproduzioni editoriali e utilizzando una distribuzione alternativa. C’erano molte persone che da soli o in gruppo scrivevano e creavano da sè delle riviste, ovvero le fanzine. Andrea scriveva su Right!: numeri unici dedicati ad un gruppo inglese di musica dance elettronica piuttosto noto: i Pet Shop Boys. Ero ancora più incuriosito perché la band inglese appartiene a un genere musicale che conosco poco, ma volevo sapere di quella sua esperienza, sapere come era iniziata la sua collaborazione, perché si era mosso, perché scrivere sulla fanzine e se era uscito vivo dagli anni ’80. Non mi sono lasciato sfuggire l’occasione di chiedergli se voleva partecipare alla serie di articoli Eighty Blues: ovvero non si esce vivi dagli anni ’80. Ecco il racconto di Andrea.

Right! fanzine Pet Shop Boys

Andrea, raccontami come hai iniziato a scrivere su Right!.
Avevo 18 anni e non conoscevo cosa significasse la parola “fanzine“.
Lessi per la prima volta questo termine sulla rivista mensile “Tutto“, che parlava di musica e che io comperavo, sfogliavo e maneggiavo come fosse una Sacra Scrittura.
Era il 1987.
Io, avido ascoltatore di musica inglese, avevo finalmente trovato pane per i miei denti. Un mensile che parlasse di musica in maniera ampia ed approfondita, con la pubblicazione di foto e curiosità, oltre ai testi della canzoni che non sempre capivo perfettamente.
Grazie a “Tutto” mi accorsi di non essere solo. C’erano centinaia/migliaia fan di musica sparsi per l’Italia, magari di generi musicali differenti o di band e cantanti differenti, ma tutti appassionati per la musica ed i dischi. Non mi sentivo più una “mosca bianca“, accorgendomi di appartenere ad una comunità più ampia, anche se di gusti differenti.
Non esisteva internet. I modi per stare in contatto tra fans erano legati a newsletters, a sporadici contatti telefonici, ad incontri (tipo mostre del disco), oppure grazie alle “fanzine”. Pubblicazioni periodiche amatoriali da parte di gruppi di fans.
Eccole, finalmente.
Le fanzine più note erano quelle legate alle band più note di allora, per esempio Duran Duran e Spandau Ballet.
Anche i miei gruppi musicali preferiti (Pet Shop Boys, Dead or Alive) avevano la “loro” fanzine, ma si trattava di pubblicazioni esistenti solo nel Regno Unito, non in italiano.
Io, da appassionato musicale, nel frattempo avevo iniziato a diventare anche collezionista di dischi. Iniziai a trovare informazioni riguardo dischi “rari” o “promozionali“, e tutta una serie di pubblicazioni su un mondo affascinante e sommerso.
Fu così che entrai in contatto con alcuni ragazzi di Milano – Caterina, Elena, Sergio e Christian – che mi dissero di avere “fondato” una fanzine chiamata “Right!” dedicata completamente ai Pet Shop Boys.
Mi iscrissi immediatamente.
Nella fanzine potevo leggere curiosità riguardanti Chris e Neil (ovviamente i 2 Pet Shop Boys), riguardo le loro prossime uscite discografiche, riguardo i loro tour, oltre a vedere foto per me al tempo inedite. Ogni pubblicazione la attendevo come manna dal cielo.
Una cosa però mancava: un approfondimento sulla loro discografia.
In “Right!” non si parlava mai dei dischi promozionali (spesso recanti materiale inedito), delle pubblicazioni straniere dei loro dischi (spesso con copertine differenti o “lati B” differenti), o degli infiniti “dischi mix” che arricchivano la discografia dei Pet Shop Boys ad uso e consumo dei collezionisti come me.

Fu così che iniziai anch’io a scrivere su “Right!”, un articolo in ogni numero, con approfondimenti “mirati” riguardo la loro discografia. Era uno spasso, per uno come me che era amante della musica, fan dei Pet Shop Boys e collezionista dei loro dischi (e lo sono ancora oggi). Right durò alcuni anni.

C’erano degli allegati?
Talvolta, in alcune pubblicazioni “speciali“, alla fanzine era abbinata una audio-cassetta contenenti brani dei Pet Shop Boys tratti da registrazioni live, da qualche bootleg o da qualche disco promozionale.
Conservo ancora tutto, pure le audio-cassette che temo di non poter più riascoltare perché non ho più il “mangiacassette“. Ti dirò di più: io ero contrario alle cassette, perché intanto io quelle canzoni/versioni le avevo già tutte su vinile/CD/cassetta originali (da bravo collezionista), ma anche perché duplicare brani… non mi pareva una bella idea, anche dal punti di vista “etico”. Ma, ripeto, non ero io a decidere su questo aspetto. Ci tengo a dire che io non curavo né le spedizioni, né la preparazione delle cassette. Fungevo solo da “collaboratore esterno” per gli articoli, che occupavano circa 3 pagine per ogni numero.

Right tape 09 allegato alla fanzine

Un aspetto caratterizzante dei Pet Shop Boys sono le copertine dei dischi.
Riguardo le copertine … sarà che sono di parte, ma ne hanno fatte molte di “iconiche“, tanto da meritarsi una mostra a riguardo alcuni anni fa.
Un album dalla copertina memorabile fu “Introspective” (sul cui stile si basa il mio ‘avatar‘), la cui combinazioni di colori variava a seconda se comperavi LP, CD, Cassetta o le edizioni limitate. Le vere copertine di cui mi innamorai furono quelle del singolo Heart, dove il nome del gruppo non compariva neppure. Ho sempre adorato il loro minimalismo.

Pet Shop Boys - Introspective

Dove cercavi ed acquistavi i dischi?

I dischi? Io li comperavo OVUNQUE, ho sempre dilapidato tutti i miei soldi (sino al matrimonio) per comperare dischi. Da Joao (mio spacciatore di dischi) comperavo moltissimo, ma poi nei mercatini, nelle fiere del disco raro e da collezione (spec. Novegro), e moltissimo via telefono/lettera (anni ’90) che poi divenne internet/mail. Asbury Park (vicino a Reggio Emilia), Retrospective (UK, non c’è più), EIL (c’è ancora), Vinyl Tap, HMV, Ebay, Discogs ….
E quanti ne dimentico. Perché cercare un “promo” o una edizione limitata, è un lavoraccio

Poi il mondo iniziò a cambiare.
Internet, innanzitutto. Ma anche i Pet Shop Boys stessi, che iniziarono a pubblicare una “loro” fanzine ufficiale, che rendeva di seconda mano i contenuti di “Right!” e di “Alternative”, la fanzine inglese che continuavo a ricevere 4 volte all’anno.
La candela si spense piano piano.
Non aveva più senso leggere “Right!” e “Alternative” perché le informazioni le potevi avere di prima mano sul sito dei Pet Shop Boys, e le anticipazioni sulle loro uscite le potevi leggere su “Literally“, la loro fanzine ufficiale (che spesso abbinava magliette, CD e merchandising vario).
E’ stato pioneristico, è stato coinvolgente. E’ stato bello.

Pet Shop Boys – Heart
Pet Shop Boys – Heart, in cui compare anche Sir Ian Mckellen, loro amico da decenni.

Il progetto sonoro F/ear this! intervista a Marco Pandin

F/ear this! A Collection Of Unheard Music, Unseen Images and Unwritten Words Inspired By Fear - yellow cover - copertina gialla

Ve li ricordate gli anni’80? Verso il 1986 e il 1987? In quel periodo c’era ancora lo scontro fra le due super potenze: gli U.S.A. e l’U.R.S.S. con lo spettro che accompagnava la corsa agli armamenti atomici. In Italia esisteva un modello di società meno libera: guidavano la democrazia cristiana e il partito socialista, gli anni di piombo erano appena trascorsi. Poco dopo accadde l’incidente nucleare a Chernobyl: “… un guasto terribile ad una centrale nucleare che distava da noi neanche un paio di giorni di viaggio: sembrava che i nostri incubi prendessero una qualche forma fisica…“. Un gruppo di giovani, fra Padova e Venezia, ebbe l’idea di mettere insieme, con il supporto e la collaborazione di amici musicisti, grafici e poeti sparsi un po’ ovunque, dei contributi collegati o collegabili ad un tema comune: la “paura”. Paura era un sentimento comune: “… facciamo qualcosa allora, cerchiamo di protestare, di alzare il volume. Cerchiamo di diffondere, di mobilitare, di passare la parola e condividere il senso di allarme. Eravamo un’accozzaglia di fanzinari e musicisti, ci siamo detti facciamo un disco …”. Marco Pandin, uno degli ideatori, ricorda così la scintilla che accese il doppio album del 1987 ” F/ear this! A Collection Of Unheard Music, Unseen Images and Unwritten Words Inspired By Fear “.

Quest’anno, finalmente, esce una riedizione in doppio CD e con libro, arricchita di brani e contenuti grafici in più. Musicalmente un doppio album molto interessante nella sua eterogeneità di stili musicali, drammaticamente attuale. I musicisti interpretano un sentimento così umano, raccontandolo in vari modi, tutti molto significativi e personali. Per me è stata una buona occasione per farmi raccontare da Marco la genesi di “F/ear this!” e le situazioni che lo crearono.

Domanda: Marco, per prima cosa, come stai ?

Risposta: Benone, per quanto possibile. Per fortuna mi piace leggere ed ascoltare musica, così le giornate in casa passano abbastanza velocemente. Ho dato una sistemata alla libreria e in mezzo al casino ho trovato dischi che neanche ricordavo di avere. Certo mi manca poter girare, ho promesso a un sacco di amici e compagni da Aosta a Bergamo a Perugia a Catania che andrò a trovarli appena finirà la peste.

D: Sei stato l’ideatore fra il 1986 e il 1987 del progetto grafico sonoro “F/Ear this!“, sbaglio o non nasce per caso?

R: La cosa da precisare subito è che non ero da solo: “F/Ear this!” è stato un lavoro collettivo, io ho soltanto messo insieme i pezzi.

D: Marco, il tuo recente passato era fatto di esperienze editoriali e discografiche indipendenti, “F/Ear this!” è un naturale proseguimento. Chi ti ha aiutato?

R: Tramite la fanzine Rockgarage col tempo avevamo messo in piedi un po’ di giro e preso contatti con altri ragazzi e gruppi attivi in città anche lontane da Venezia – ad esempio i Franti a Torino, i Diaframma a Firenze, gli Spleen Fix a Salerno. Siamo stati invitati dall’Arci ai primi Meeting delle etichette discografiche indipendenti a Firenze, dove s’è potuta incontrare parecchia gente anche di paesi stranieri, lo stand di Rockgarage era aperto e condiviso e attorno c’era sempre folla e casino. L’idea di fondo era sostenersi a vicenda, e questi intenti sono stati grossomodo mantenuti anche dopo la chiusura della fanzine. In questo caso specifico abbiamo provato a immaginare un progetto costruito attorno alla comune paura che si viveva dopo l’incidente di Chernobyl, paura che si veniva ad aggiungere all’inquinamento, all’AIDS, all’oppressione politica, agli euromissili. Ognuno ha contribuito come ha potuto e saputo fare. Abbiamo costituito un gruppo informale di individui e collettivi, fanzinari e musicisti, tutti pecore nere e tutti differenti come potevamo esserlo io e Giacomo Spazio, Franti e Detonazione, i Plasticost e la Trax. Al tempo era pratica diffusa raccogliere dei fondi tramite la musica, così abbiamo pensato di destinare il ricavato di “F/Ear this!” ad A/Rivista Anarchica perché da sempre in redazione avevano dimostrato nei nostri confronti – intendo noialtri fanzinari e varie bestie disperse – una certa simpatia ed apertura mentale senza trattarci come un fenomeno da baraccone.

D: Invece sono curioso di come siete riusciti a contattare tutti gli artisti, fra l’altro non solo italiani, visto che non c’era la posta elettronica o la rete Internet. Li conoscevi tutti?

R: Prima di internet c’era la posta tradizionale, c’erano il telefono e i fax, ci si incontrava di persona per strada, alle manifestazioni, ai raduni, ai concerti. Abbiamo fatto così – per passaparola. Non è stata affatto una cosa organizzata e pianificata, eppure direi che ha funzionato.

D: “F/Ear this!” non è solo una raccolta di canzoni e musiche ma vi sono opere grafiche e poesie, perché?

R: La musica dopo il Sessantotto è stata un collante sociale formidabile, noi siamo venuti dopo ma direi che è stato quello il nostro rumore di fondo – la controcultura hippy, il pacifismo, i poeti beat, le manifestazioni di protesta, Rock in Opposition, le canzoni di lotta. Nel mettere in piedi e soprattutto nel mantenere in piedi Rockgarage abbiamo avuto la fortuna di una mentalità aperta, nel senso che davvero non ce ne fregava assolutamente niente se uno suonava punk oppure dark oppure blues. A noi bastava suonare, bastava tirare fuori le parole e le canzoni da dentro senza doverci preoccupare della forma. Abbiamo organizzato dischi e concerti collettivi dove coesistevano sul vinile e sul palco generi espressivi distanti, Death in Venice e Funkwagen, Pitura Freska e Degada Saf per dire, e non è mai stato un problema per nessuno. Da ogni serata uscivamo tutti felici ed arricchiti, si montava il palco e si puliva la sala insieme, alla fine avanzava sempre abbastanza per una pizza e una birra insieme. Altrove non funzionava così, per dire al Virus di Milano suonavano solo gruppi punk perché in quell’aggregarsi milanese c’erano delle motivazioni differenti dalle nostre. Non avevamo un’identità da difendere, piuttosto ci si era accorti che dovevamo stare insieme per difenderci – in provincia la vita funzionava diversamente che nelle città grosse. Per tutto questo dentro a “F/Ear this!” c’è stato posto per chiunque avesse disegni da mostrare, parole da far leggere e canzoni o rumore da far ascoltare. Pensa che non abbiamo neanche scritto la lista dei partecipanti fuori in copertina.

F/ear this! A Collection Of Unheard Music, Unseen Images and Unwritten Words Inspired By Fear

D: Il gioco di parole contenuto nel titolo è tutt’ora d’impatto, come venne fuori?

R: Il titolo è frutto del genio di Vittore Baroni, che si è occupato anche della raccolta dei contributi grafici. Senti questo, e abbi paura di questo: facevamo sul serio senz’altro, ma ci piaceva divertirci.

D: Musicalmente vi sono gruppi di generi e stili differenti, eppure ascoltando “F/Ear this!” ho avuto l’impressione che tutto sia collegato.

R: C’è un sottofondo, sì. Non un filo rosso fisico e distinguibile, piuttosto un qualche cosa di rarefatto, come un’affinità di percezione che serpeggia fra le tracce. E’ stata la mia esperienza di fanzinaro, e ancora sono dell’idea che le varie etichette appiccicate sopra ai generi espressivi musicali siano un espediente per creare divisioni insormontabili fra ragazzi che invece naturalmente tenderebbero a cooperare.

D: Quale fu la tiratura dell’opera?

R: Abbiamo stampato 1200 copie su vinile e 500 cassette. Ad ogni doppio album era allegato un libretto, per le cassette ci si è arrangiati con fotocopie fatte di sfroso al lavoro perché non c’erano abbastanza soldi per pagare altri libretti alla tipografia.

D: Posso dire che la “paura” sembra non passare mai di moda…

R: Ogni tanto rifletto e mi viene da dire che abbiamo ristampato “F/Ear this!” nel momento più sbagliato. Però poi mi passa, e penso che sembra l’abbiamo fatto apposta.

D: Oggi, nel 2020 decidi di ristampare in un nuovo formato “F/Ear this!”. Noto che in questa edizione ci sono delle canzoni che non c’erano nel 1987.

R: Come dicevo prima allora si è lavorato di passaparola e i contatti con i partecipanti sono stati creati e mantenuti via posta tradizionale, adottando cioè una velocità di comunicazione che adesso viene considerata come inadeguata. Non ci si aspettava certo una risposta così voluminosa e complessa: all’inizio ci eravamo orientati su un album singolo, ma arrivavano sempre più contributi e si è arrivati ad un album doppio. Il problema è stato che a un certo punto avevamo quasi messo insieme le quattro facciate ma continuava ad arrivare roba. Parecchi nastri sono arrivati quando “F/Ear this!” era già stato pubblicato.

D: I dischi ora non sono facili da trovare, fra l’altro nei mercatini e in rete non costano poco.

R: A me sinceramente queste speculazioni non piacciono, così come non riesco proprio a comprendere come si possano spendere cifre assurde per un disco quando c’è tanta gente che fa fatica ad arrivare a fine mese. Sono un appassionato di musica, ogni tanto mi piace gironzolare per i negozi di vinile usato ma non arrivo a capire come si possa essere disposti a pagare che so quaranta-cinquanta euro per un vecchio disco… O cifre addirittura maggiori. Possedere, possedere, possedere: penso che si metta in moto dentro in testa un qualche meccanismo perverso, più che collezionisti mi sembrano degli accumulatori seriali, gente per cui la passione per la musica a un certo punto è diventata una nevrosi. Sono dell’idea che la musica vada distribuita e condivisa, non congelata in uno scaffale.

D: Oggi come avete pensato alla distribuzione? Anche nei canali della “musica liquida“?

R: Come ho già avuto modo di dire, stella*nera non è un’etichetta discografica. Le cose che facciamo non sono poste in vendita, quindi non avendo niente da vendere non abbiamo bisogno di affidarci ad un distributore commerciale. Inoltre, le nostre cose le offriamo in cambio di un’offerta libera e responsabile e ogni volta puntualizzo che offerta-libera-e-responsabile è diverso da un’elemosina. Anche grazie a spazi come questo riceviamo regolarmente parecchie richieste per lettera, e-mail, telefono e mandiamo pacchetti. Ogni tanto partecipiamo a qualche bookfair anarchico, oppure ci invitano a presentare i nostri lavori così la gente ha la possibilità di incontrarci. Delle copie delle cose che facciamo girano comunque anche in alcuni negozi di dischi e librerie, sono posti gestiti da persone amiche che nel tempo ci hanno sostenuto.

Copertina 2020 F/ear this! A Collection Of Unheard Music, Unseen Images and Unwritten Words Inspired By Fear

D: Mi piacerebbe conoscere qualche aneddoto sul materiale o sui contatti.

R: Grande parte del lavoro di digitalizzazione delle registrazioni è stata fatta da Marco Giaccaria, che ha uno studio casalingo ben attrezzato. Ero con lui quando abbiamo letto e registrato il master analogico originale, ad un primo esame le bobine si erano conservate abbastanza bene nonostante gli anni passati in cantina ed i ripetuti traslochi. Altre però erano purtroppo deteriorate e inutilizzabili, anzi alcune delle registrazioni che siamo riusciti a salvare sono la documentazione in tempo reale dell’ultimo scorrere del nastro sulla testina prima di sbriciolarsi. Le difficoltà di lettura hanno caratterizzato parecchio il contributo senza nome di Massimo Giacon e Mimì Colucci, e secondo me hanno aggiunto una certa drammaticità al pezzo dei 2+2=5, che non abbiamo poi tentato di ricostruire da vinile e abbiamo lasciato così. Purtroppo un bel po’ di roba, a volte neanche identificabile perché mancavano le indicazioni sulle scatole, è andata irrimediabilmente persa. L’idea di ristampare “F/Ear this!” è partita dal ritrovamento fortuito in garage di una cartellina finita dietro a uno scaffale, dentro c’erano le tavole originali di Vittore Baroni e il progetto di Franco Raffin di Rockgarage per la copertina – allora era stata scartata perché la vedevamo “un po’ troppo Joy Division”, si può essere più stupidi di così.

Collage di Annie Anxiety Crass F/ear this!

D: Per quanto riguarda la parte grafica mi piacciono molto i collage della poetessa Annie Anxiety del collettivo anarcopunk inglese dei Crass.

R: Avevo conosciuto Annie assolutamente per caso, pensa che neanche sapevo fosse lei. Ero stato con Gino Collelli degli Wops a Dial House per mostrare ai Crass le cose che facevamo e soprattutto per discutere del libro di traduzioni dei loro testi che poi ho pubblicato. Dopo una giornata passata a parlare principalmente con Phil, Penny e Gee, Gino ed io stavamo ritornando a piedi alla fermata della metropolitana quando a un certo punto accosta una macchina che ci offre un passaggio. Ho riconosciuto lei e il suo compagno (che era Pete Wright, bassista dei Crass) l’anno successivo durante un concerto a Nottingham. Ad Annie sarebbe piaciuto partecipare al convegno anarchico di Venezia, così ho organizzato una serie di date in giro per l’Italia press’a poco nello stesso periodo del convegno. In quei giorni abbiamo approfondito la nostra amicizia, così prima di ritornare a casa Annie mi ha regalato parecchi disegni suoi, collage, acquerelli, poesie scritte a mano e altre a macchina – al tempo avevo tradotto e raccolto un po’ di cose sue in un libretto che ho allegato ad una cassetta. Vittore ne ha utilizzato una parte per illustrare “F/Ear this!”.

D: La nuova edizione 2020 è sempre il frutto di un lavoro collettivo, vero?

Da qualche tempo stella*nera non è più un fatto personale, mi danno una mano alcuni compagni, gente che mi è sempre stata vicina in questi anni. Tra questi Dethector, Marco il pirata genovese, Miguel il montanaro, Franz nella zona rossa bergamasca. Abbiamo età e storie diverse, per questa ragione le nostre discussioni attorno ai progetti tendono ad incendiarsi. E’ bellissimo. Mi piace lavorare da solo, e l’ho fatto per tanto tempo, ma così in compagnia c’è senz’altro più gusto. Di recente abbiamo collaborato con Stefano Gentile di Silentes: questo per me è stato un avvicinarsi fortunato e felice, ci conosciamo dai tempi di Rockgarage – lui e suo fratello erano degli Hyxteria, uno dei primissimi gruppi punk veneti, e mandavano avanti la fanzine Nashville Skyline.

Per ricevere “F/ear this! A Collection Of Unheard Music, Unseen Images and Unwritten Words Inspired By Fear” potete rivolgervi a:

stella*nera oppure a Dethector oppure a Silentes

2+2=5 – Guang Zhou
Two Tone – Sometimes Timid / My Womb
Jane Dolman e Pete Wright – Fishes In Water
Giorgio Cantoni – Un anno nelle favelas

Per ricevere “F/ear this! A Collection Of Unheard Music, Unseen Images and Unwritten Words Inspired By Fear” potete rivolgervi a:

Tutto andrà bene 13

La malattia Covid-19 è arrivata in maniera silenziosa e strisciante qui da noi. All’inizio sembrava lontana, là in Cina ed invece eccola fra di noi.
Ci fa provare insicurezza e paura: credo che sia innegabile. Fatalità due giorni fa una gradita sorpresa: il postino (grazie per il suo lavoro) mi ha consegnato un pacchetto, con il doppio album di “F/ear this! A Collection Of Unheard Music, Unseen Images and Unwritten Words Inspired By Fear“. Si tratta della nuova edizione in CD del progetto grafico – sonoro curato da Marco Pandin nel 1987, oramai esaurito e quasi introvabile, se non a delle cifre esagerate. Si tratta di una raccolta di brani musicali, disegni e poesie espressamente scritti e registrati per “F/ear this!“.
Ho pensato che fosse interessante scriverne, perché questo doppio CD tratta del sentimento della paura e dell’insicurezza che poteva suscitare alle persone il pericolo nucleare negli anni’80: positivo il modo in cui gli artisti che parteciparono “F/ear this!” reinterpretarono la paura, magari proprio per esorcizzarla ed allontanarla da sé. Anche ora in questi giorni questo progetto artistico musicale mi sembra attuale.

Oltre ai due album vi è allegato un libro con opera grafiche, collage e poesie, seguito dal mailartist Vittore Baroni di TRAX. Gli stili musicali sono molteplici: il jazz più estremo, la new wave anni ’80, il punk, la musica elettronica e fino ad arrivare alle sperimentazioni ambient o altre contaminazioni sonore, melodiche e bizzarre. La raccolta, già dal titolo, ha come tema “la paura“: gli artisti hanno cercato di parlarne, di raccontarla musicalmente o graficamente, come se fosse un veicolo per allontanarla da sé e tenere a freno le proprie ansie. “F/ear this!” è nata nel 1986 ed è stata pubblicata all’inizio del 1987. Se ricordate fu un periodo in cui vi era lo schieramento frontale fra gli U.S.A. e l’U.R.S.S. ed era diffusa la paura (appunto) per la catastrofe atomica. Nello stesso anno era appena successo l’incidente nucleare di Chernobyl. Marco Pandin ricorda: “un guasto terribile … che distava da noi neanche un paio di giorni di viaggio: sembrava che i nostri incubi prendessero una qualche forma fisica, si riusciva a vederne chiaramente i contorni, a toccarli, ad inghiottirli, a respirarli“. Il pregio di “F/ear this!“, ora ci torna fra le mani, non sembra per nulla invecchiata, anzi resta così attuale e ricca di significati. La particolarità è l’assieme di stili musicali molto differenti fra loro, ma proprio queste differenze fanno di “F/ear this!” il suo valore più importante.

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Ho appena ricevuto un link con una bella e completa intervista a Marco Pandin, la trovate qui: Tregua Mai – Marco Pandin e il progetto F/Ear this!

Eighty Blues 6 ovvero non si esce vivi dagli anni ’80 parte 6

Ho ripreso la serie di storie e pensieri intitolata Eighty Blues ovvero non si esce vivi dagli anni ’80, partendo da Milano con la fanzine Zero Zero, ideata in gran parte da Giacomo Spazio. A Milano, fra i tanti studenti, c’è chi sente la voglia di esprimersi suonando e disegnando: ecco la sesta puntata con le parole di Zop, che ci racconterà della sua voglia di fare qualcosa di diverso, di esprimersi con quello che ha sottomano e di sentire l’urgenza di farlo. E come? Disegnando e suonando.
Siamo a Milano, nel 1985 al liceo classico Carducci.

Un ricordo degli anni Ottanta

di Zop

Metal Hurlant raccoltaSono gli anni Ottanta. Ho tanta voglia di musica e fumetti. Ma per me “musica” significa solo un certo preciso tipo di musica, e “fumetto” significa solo un certo preciso tipo di fumetto.
Nell’aria si filosofeggia che siano le due facce di una stessa medaglia, attraversate dallo stesso spirito di ribellione e creatività, chissà poi perché. In edicola ci sono riviste a fumetti di nuova concezione legate anche alla musica, si chiamano Totem, Pilot, Metal Hurlant e traducono soprattutto autori francesi: Bilal, Caza, Jean Giraud più noto come Moebius… Non ci sono le graphic novel, c’è il fumetto d’autore. In Italia c’è Paz (Andrea Pazienza) o Milo Manara, che produce ancora storie impegnate come Lo scimmiotto o Le avventure di HP (che sta per Hugo Pratt).

Frequento il liceo classico Carducci di Milano, che è una scuola bene, ma mi sento un ribelle. Scarabocchio sulla Smemoranda, disegno tavole con le mie storie geniali che sogno un giorno di pubblicare. Mi chiamano tutti zop e vorrei essere Paz.

Strimpello la chitarra. Male. Malissimo. Ma non fa nulla. Sogno lo stesso di essere su un palco a suonare e cantare, ameno una volta nella vita.

Ogni tanto pubblico qualche vignetta sulla rivista della scuola, il ciclostilato Sepolti vivi. Ci sentiamo sepolti vivi al Carducci, e quel nome richiama, cinicamente, la tragedia di Alfredino Rampi. Dopo due o tre numeri il giornalino chiude. Rinasce qualche tempo dopo con più fortuna e spessore con un altro nome e formato: Neopolis.

Caricatura di Mangelli di ZopUn giorno, al collettivo studentesco si decide di organizzare un grande concerto nell’aula magna. C’è uno di terza che ha agganci con un gruppo punk del Virus, uno dei peggiori centri sociali della città. Peggiore vuole dire fico. Si candida anche un gruppo della scuola, gli Effetti collaterali. Però loro suonano davvero, sono bravi e sanno persino leggere gli spartiti. Poi c’è Marco Mangelli, che storpiamo spesso in Mangiolli. Lo conoscono tutti a scuola, al basso è un dio, praticamente un professionista, e suona con altri bravissimi. Mi ha insegnato lui a fare i primi accordi, e io gli ho fatto un ritratto-caricatura che hanno pubblicato sul giornalino.

Anche io sono conosciuto da tutti, sono uno di quelli che fa casino e non passo inosservato. Voglio suonare anche io in quel concerto.

Qualche giorno dopo ne parlo al mio amico Ghillo che frequenta un istituto grafico e mi propone di creare appositamente un gruppo. Dice che farebbe volentieri il batterista.

Ghillo non ha mai suonato la batteria in vita sua, ma corre a comprarsene una e la piazza in un angolo in un magazzino della ditta del padre. Di fronte a una batteria vera e a un concerto, si aggrega anche Luciano, che sa strimpellare e ha il sogno di fare l’attore. Salire sul palco è qualcosa che gli scorre nelle vene. Anche lui è uno che spicca al Carducci. Canta e suona la chitarra molto meglio di me. Come tutti del resto. Però io sono anche un autore: ho appena composto un pezzo di rock demenziale che si intitola “Mia nonna si fa le pere” ispirato allo stile degli Skiantos. Consiste in un testo scritto a mano su un foglio bianco con sopra annotati gli accordi, un giro di Mi. Glielo accenno. È fatta!

Locandina Jack Tripper di ZopPropongo di chiamarci i Jack Tripper. Suona bene, è il protagonista del mio telefilm preferito, uno che vive con due donne. Gli altri due ne sono entusiasti, nessuno può trovare un nome migliore e di migliore auspicio.

Torno a scuola e chiedo agli organizzatori di farci partecipare. Mi dicono che i giochi sono fatti e non si può più. Rispondo che facciamo solo tre pezzi, possiamo aprire e toglierci di torno dopo 10 minuti senza influire troppo sulla scaletta. Mi dicono che non ci hanno mai sentiti suonare e non diamo garanzie. Mentre le cose si mettono male e tira aria di rissa, passa di lì Mangiolli che sentenzia un “si può fare”. La sua parola è la migliore garanzia musicale possibile, in quella scuola. E così ci mettono nel cartellone e mi precipito a disegnare una locandina con cui tappezzo i muri del liceo.

Siamo solo in tre, come i Police. A dire il vero ci manca il basso, ma pazienza. Una batteria, due chitarre e nessuno che sappia suonare. Dopo i Sex Pistols, siamo noi la più grande truffa del rock.

Abbiamo solo 15 giorni per provare. Non possiedo nemmeno una chitarra elettrica, ma la rimedio da un amico in prestito. Ci si trova una notte nel magazzino del padre di Ghillo, dietro al parco Lambro. Il locale, enorme e vuoto, crea un effetto cassa di risonanza che sparge i nostri rumori per tutto il quartiere. La polizia arriva nel giro di un’ora, e la prima delle nostre prove viene interrotta. Ne facciamo un altro paio in seguito in uno scantinato che non ricordo, ma i risultati sono pessimi.

E’ il giorno del concerto e i Jack Tripper aprono le danze. In fondo all’aula magna vedo tra gli spettatori il preside, in piedi contro il muro accanto alla moglie incinta. Attacchiamo con “Mia nonna si fa le pere” e scappa via dopo meno di un minuto.

Io canto, intonato e con grinta. Però suono la chitarra da cani e vado fuori tempo sin dai primi accordi. Luciano mi fulmina con gli occhi. Capisco che lo devo guardare, così seguo almeno i movimenti della sua mano, che esegue gli stessi accordi, visto che non ho alcun orecchio. Anche Ghillo va un po’ per conto suo: picchia sulla batteria forte e a casaccio, solo con le mani, perché non è capace di tenere contemporaneamente il ritmo anche con i piedi e di aggiungere la grancassa.

Però abbiamo davanti almeno quaranta persone che ci incitano e gridano i nostri nomi come fossimo celebrità solo perché ognuno si è portato gli amici. E il loro entusiasmo trascina la folla. Nelle prime file tutti ballano e si sbellicano. Sento distintamente due che si dicono: “Fanno apposta. Lo stanno facendo apposta!
Non lo facciamo apposta. Gli Effetti collaterali ci guardano increduli. Mangiolli ride. Tutti ridono. I punk del Virus ci scrutano con sospetto e meditano sul da farsi. Ci tirerebbero volentieri addosso qualche lattina di birra e ci scaraventerebbero giù dal palco a forza, ma sono frenati dal fragore delle prime file che ci urlano: “Grandi!” Sul palco ci divertiamo come matti e ci esibiamo con la forza dell’ignoranza. Crediamo di fare musica, ma stiamo facendo cabaret. Il risultato è comunque un trionfo e scendiamo dal palco illesi e tra gli applausi. Poi salgono gli altri e inizia la musica vera.

Nessuno di noi ha più coltivato la carriera musicale.
Ghillo oggi fa l’imprenditore in Spagna.

Luciano è diventato un bravo attore.

Io ho abbandonato la via del fumetto, ma ogni tanto scrivo un libro.
Nel frattempo gli anni Ottanta sono morti, e noi siamo ancora quasi tutti vivi.

 

Riferimenti
  • Il sito di Zop
  • La fanzine Seppolti vivi in formato PDF da sfogliare o scaricare:

Fanzine Zero Zero con tape allegato

Fanzine Zero Zero copertinaSpulciando nei meandri della scena underground italiana degli anni’80, abbiamo trovato la fanzine Zero Zero nr. 1. Allegata alla rivista c’è una cassetta audio (tape) con svariati gruppi new wave post punk psyco rock… La fanzine è stata pubblicata a Milano nel novembre del 1985, con notevole impegno e sforzo economico, visto è stampata a colori.
Di seguito alcune impressioni d’ascolto di Marco Tira..

Ad ogni modo posso dire che la registrazione della cassetta mi ha davvero sorpreso, sembra essere stata prodotta in maniera professionale! Forse anche per questo motivo il suo ascolto è stato praticamente perfetto, senza quelle “tipiche” distorsioni dovute al deterioramento del nastro (più di 30 anni cavolo!).
La copertina invece è molto spartana e semplice, un semplice foglio leggermente ruvido e in bianco e nero, ma a quanto pare esistono anche con copertina rosata. La cassetta vera e propria invece ha due etichette bianche generiche e sui due lati a matita c’è scritto il numero “1” e sull’altro il numero “2”.

La fanzine allegata è carina, ha le pagine di diversi colori e sono presenti i testi di quasi tutte le canzoni. Ogni pagina ha un colore diverso dall’altro. La copertina ha chiari riferimenti sessuali… infatti su uno sfondo che rappresenta l’universo/spazio (che sia un richiamo al cognome di Giacomo?), è presente una donna e in basso un’astronave di forma fallica che vola verso l’alto…

In prima pagina ci sono le informazioni relative alla produzione/distribuzione della fanzine + cassetta. In seconda pagina un messaggio ironico ed inventato “CHE Ernesto Che Guevara” vuole inviare ai lettori:  il senso di tutto è che la musica è cultura e veicolo di conoscenza.
Le altre pagine riportano i testi delle canzoni in ordine di “comparizione” sulla cassetta e le informazioni sul gruppo (solo i nomi dei membri in realtà). Dimensioni della fanzine 15x21cm circa.

L’ascolto è stato davvero piacevole e coinvolgente… di seguito alcune considerazioni:

1) Inside Out:  a primo impatto mi hanno ricordato i Joy Division e forse anche qualcosa dei Bauhaus.
La traccia “In the name of love” scorre molto bene e il giro di basso tipico della new wave è incalzante.

2) Kubrix: piacevole scoperta… Once Again è una traccia davvero coinvolgente, più vicina al punk che alla new wave… La voce di Clara Moroni è decisamente interessante nonostante la giovane età (se non sbaglio era appena ventenne) e proprio questo la porterà ad essere un punto di riferimento nella cosiddetta “Italo Disco” e ad essere l’attuale corista di Vasco Rossi.
Link traccia d’ascolto

3) Nadja: Toni decisamente più cupi per questo gruppo ligure… canzone cantata in un inglese un pochino grossolano, decisamente da migliorare.
Traccia troppo monotona, a tratti angosciante e “lagnosa”.. il tocco del “tamburello” alleggerisce il tutto ma non fa miracoli!

4) 2+2=5: Gruppo che non ha bisogno di presentazioni… ascoltarli dopo i Nadja porta una ventata di freschezza e armonia! Il sound è particolare e per essere compreso appieno ha bisogno di essere ascoltato diverse volte… un po’ come tutte le loro produzioni a mio avviso. Qui invece si canta in italiano e per un momento ci si allontana “dall’usanza” di cantare in inglese.  Il cantante in questa canzone è Joe (potrebbe essere Mauro Ermanno Giovanardi dei futuri La Crus).
Link traccia d’ascolto

5) Colour Moves:  Apparentemente non c’entrano nulla con gli altri artisti.. ma forse è proprio questo il bello della Zero Zero… Questo pezzo non sembra neanche appartenere al genere New Wave, sembra quasi Pop!
Davvero molto piacevole all’ascolto, mi ha fatto venire voglia di approfondire questo gruppo.
Link traccia d’ascolto

6) Braque: Senza infamia e senza lode… l’ascolto è piacevole ma questa traccia non riesce a trasmettermi nulla… non riesco a comprendere bene le parole del cantante ad essere sincero. Colpa della registrazione?

7) Tribal Bops:  appena iniziata mi sembrava una canzone rock anni ’50… ritmo estremamente coinvolgente e viene voglia di riascoltarla! Buono l’inglese del cantante in pieno stile rockabilly. Strano che non abbiano pubblicato un album vero e proprio.

8) Pression X: Canzone caratterizzata da un singolo motivetto e stile Garage con rimandi alle sonorità country (carino il pezzo con l’armonica e le urla tipo “Hiii Aaaahh”). Li approfondirò e magari comprerò anche l’EP.

9) Peter Sellers And The Hollywood Party: Per certi aspetti mi ricorda la traccia dei Pression X, con un’armonica che la fa da padrona assieme all’onnipresente basso. Traccia molto “veloce” e coinvolgente.. Da quanto ho letto su internet, nel 2013 sono tornati insieme e stanno producendo cose interessanti.. gli amanti del genere ne saranno felici, secondo me meritano parecchio.
Link traccia d’ascolto

10) Maldoror:  Cataldo Dino Meo è un vero pazzo… o un genio? Non riesco a trovare le parole adatte per descrivere testo e musica.. consiglio a tutti di ascoltare questo pezzo…
Link traccia d’ascolto

11) Oh Oh Art:  Altro Gruppo da approfondire… una sorta di mix tra new wave e musica elettronica che ha dato vita ad una bella traccia.
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Riferimenti

Mike Watt Le tre opere: intervista al traduttore

Mike Watt writing poems stella * nera

Il libro Watt di Hector Valmassoi contiene i testi delle canzoni del musicista Mike Watt. Hector ha scelto di tradurre gli album che il musicista ha ribattezzato le Tre opere punkContemplating the engine room, The secondman’s middle stand e Hyphenated-man. Questi dischi sono significativi perché riguardano dei passaggi particolari nella vita del musicista di San Pedro. Gli album sono stati pubblicati fra il 1997 ed il 2010.

Oltre ai testi degli album, Hector ha inserito una raccolta di poesie di Mike Watt: impressioni di vita, punti di vista introspettivi o in ricordo di musicisti (John Coltrane, John Entwistle dei The Who). Un approfondimento per scoprire un’altra sfaccettatura della sensibilità del musicista di San Pedro.

Mike Watt è stato il bassista dei Minutemen, un gruppo musicale dell’underground americano degli anni’80. La band iniziò con il punk ma il loro stile si trasformò in una musica più creativa, mescolando punk rock con sonorità jazz e funk. I Minutemen interruppero l’attività musicale per la morte prematura di D. Boon, cofondatore del gruppo e amico fraterno di Mike. Il musicista ha continuato a suonare dando vita ai fIREHOSE e collaborando con gruppi indipendenti, come i Sonic Youth oltre a suonare dal 2003 il basso con Iggy Pop and the Stooges.
Sono state la presentazione del libro, la cura e la passione con cui Hector ha svolto il lavoro, che mi hanno fatto intuire un qualcosa in più oltre alla traduzione dei testi di Mike Watt.

Domanda: Hector, sono rimasto piuttosto sorpreso di vedere e leggere un libro italiano sui testi di Mike Watt.
Risposta: Sono sorpreso anch’io che finora nessuno ci abbia pensato. Probabilmente è qualcosa che non ha mercato. Mentre raccoglievo materiale che mi sarebbe servito per la realizzazione del libro, ho spesso osservato che l’editoria italiana, tranne qualche raro caso – “American hardcore” di Steven Blush tradotto e pubblicato da Shake e, più tardi, “American Indie”, traduzione di “Our band could be your life” di Michael Azerrad uscito per Arcana – ha stranamente trattato di punk o della cosiddetta musica indie saltando dai Sex Pistols direttamente ai Nirvana, dimenticando tutto ciò che è avvenuto in mezzo. Mi riferisco alla scena underground americana degli anni ottanta ed in particolare a tutto il fermento che ne è scaturito con i gruppi che, partendo da sonorità hardcore, hanno sviluppato linguaggi differenti ed originali, virando verso contaminazioni con altri generi musicali ed arricchendo così il proprio lavoro di nuove idee e nuove sonorità: Minutemen, Hüsker Dü, Saccharine Trust, Mission of Burma, Butthole Surfers, solo per citare alcune bands tra quelle che hanno contribuito alla mia “educazione”. Ecco, credo di aver voluto scrivere il libro che avrei voluto leggere.

D Boon Minutemen - punk is whatever we made it to besticker di Robert Locker

D: Mike Watt e i Minutemen sono stati un esperienza importante nel panorama della musica underground americana.
R: I Minutemen hanno aperto nuove strade: musicalmente hanno esplorato nuovi territori, sono stati rappresentativi dell’etica punk del do-it-yourself, hanno riempito le canzoni di riflessioni personali e di idee politiche, hanno funzionato anche da collante per la comunità punk della South Bay di Los Angeles e come esempio per molte bands sparse per gli Stati Uniti. Con la morte di D. Boon, avvenuta nel 1985 in un incidente stradale, molto è andato perso. Mike Watt continua a portare avanti i messaggi e le motivazioni che sono stati la spinta iniziale del suo motore: ancora oggi conclude i suoi concerti con l’invito “Start your own band”, mettete in piedi il vostro gruppo.

D: Perché hai scelto di tradurre gli album “Contemplating the engine room”, “The secondman’s middle stand”e “Hyphenated-man” e non i testi dei Minutemen?
R: Sono partito con l’idea, in verità abbastanza folle, di pubblicare le traduzioni di tutti i testi scritti da Mike Watt, comprendendo quindi le canzoni scritte, cronologicamente, per Reactionaries, Minutemen e fIREHOSE, per arrivare infine ai dischi solisti. Intorno ai vent’anni avevo già tradotto, ad uso strettamente personale, per comprendere meglio qualcosa che percepivo così vicino a quello che mi girava in testa, le canzoni di Minutemen e fIREHOSE, chiedendomi nel corso degli anni se valesse la pena riprenderli in mano e ricavarne un libro. Le traduzioni sono ancora tutte lì ed ogni tanto penso che sì, potrei tirarci fuori qualcosa di interessante. La scelta di focalizzare il libro sulle tre opere è stata di Watt, con cui ho condiviso tutto il percorso di realizzazione, dalla traduzione fino alla decisione di pubblicarlo fuori dai canali commerciali.

Mike Watt albums Contemplating The Engine Room - The Secondman's Middle Stand - Hyphenated-Man

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NERO una fanzine o una rivista?

Libro NERO ristampa 2015 Marco FormaioniEcco un evento importante che riguarda l’editoria underground italiana!
Finalmente è uscita l’edizione integrale e ragionata della fanzine NERO di Marco Formaioni. Un momento mi correggo, non una fanzine ma una vera e propria rivista, sebbene avesse la periodicità di una fanzine.
NERO proviene direttamente dagli anni 1983 – 1988, ma la si legge con piacere tutt’oggi e nessun tema trattato risulta essere datato.
Un libro in “nero” imperdibile per riscoprire di un certo cinema, di musica altra, letteratura, moda, cucina, temi libertari e modi d’essere in negativo.
Una linea editoriale particolare, coraggiosa e “in direzione ostinata e contraria” rispetto alla media degli anni ’80 e oso dirlo, anche di oggi.
Un occasione per ricercare i pensieri di persone che hanno scritto e fatto qualcosa di importante per la scena underground italiana anni’80: Vittore Baroni, Paolo Cesaretti, Daniele Ciullini, Alessandro Limonta.
E quindi cosa trovare in LibroNERO?
Lascio la parola a Marco:

Mi guardavo in  giro e vedevo che tante cose che mi sarebbero piaciute trovare stampate non c’erano. … Ho scoperto che intorno alla morte e al sesso ci sono grandi tabù, grandi rimossi. … Ma soprattutto la cosiddetta cultura del negativo (che in seguito sarebbe diventato il sottotitolo di NERO) mi affascinava. Volevo vedere cosa c’era dietro le cose “cattive” che succedevano, ero affascinato dai delitti (singoli o di massa), dalla sofferenza che naturalmente sta dentro ognuno di noi.
… Ecco da tutto questo originava la linea editoriale di NERO, una sorta di pazzia culturale, omogenea ed eterogenea contemporaneamente, una sorta di schizofrenia giornalistica, ma con un punto ben fisso in testa: ribadire con forza la libertà di esprimere qualunque cosa, anche le più disturbanti. Marco Formaioni

La presentazione ufficiale de LibroNERO sarà il 27 marzo a Piombino, scarica la locandina per maggiori informazioni.
Il volume di 216 pagine contiene tutti i numeri di NERO, compreso l’ultimo numero rimasto inedito. L’editore è La Bancarella editrice.

Da Mutazione a Musica per architetture abbandonate di Daniele Ciullini

Daniele Ciullini Musica per architetture abbandonateDaniele Ciullini durante gli anni ’80 gestiva fanzine e componeva musica elettronica e ora grazie alla nuova riscoperta della vecchia scena underground italiana degli anni ’80 è stato selezionato da Alessio Natalizia nella compilation Mutazione, edita per l’etichetta inglese Strut Records. Interessante riprendere gli esperimenti del passato ma ora Daniele sta vivendo una nuova creatività musicale proprio nella sua città, Firenze. Daniele ha sempre cercato delle suggestioni da luoghi isolati o abbandonati per trarne ispirazione.
Il progetto sonoro Musica per architetture abbandonate è ormai rilasciato già da qualche mese ma ci sono altre novità …

Domanda: Daniele, introduci la scena underground degli anni ‘8o a Firerenze.
Risposta: Gli anni ’80 hanno attraversato Firenze con tutto il loro potenziale di creatività un po’ come dovunque. E’ stata un’onda che ha toccato tutte le aree, anche se arti applicate, teatro e musica hanno fatto la parte del leone. Secondo le leggi che governano lo sviluppo della società in genere ad una moltiplicazione quantitativa di prodotti culturali ha corrisposto poi la nascita di una rete di spazi e occasioni nei quali portare in superficie le produzioni; sono così sbocciati discoteche, trasmissioni radio, club, negozi e fanzines nei quali quel variopinto mondo mutante e trasgressivo ha trovato sede. Un circuito che qualitativamente e quantitativamente ha oscurato quello più ufficiale, chiuso nel mantenimento della tradizione e incapace di aprirsi al cambiamento. Queste in sintesi le luci. Le ombre invece, a mio avviso, sono localizzate sul fiato corto che tanti nomi e situazioni hanno avuto. Quasi una fiamma che rapidamente si è spenta, così che soltanto ben pochi progetti sono stati capaci di reggere l’urto del tempo sviluppando quei geni di bellezza e novità mostrati in origine.

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