Lettori da spiaggia: Va tutto bene John Sinclair

John Sinclair - Va tutto bene It's all good Stampa Alternativa editore

Un ricordo delle letture estive: Va tutto bene, di John Sinclair. Il libro edito da Stampa Alternativa, raccoglie poesie ed articoli dell’attivista civile nonché scrittore. Una raccolta di saggi libera da preconcetti sulla società americana ed arricchita di scritti sulla musica jazz, blues e rock.

La canzone di John Lennon e Yoko Ono dedicata a John Sinclair, per sensibilizzare l’opinione pubblica ed ottenere la scarcerazione.

John Sinclair è stato il manager del gruppo MC5 di Chicago, il gruppo rock univa tematiche politiche suonate potentemente.

Radio Punk: come si intende oggi l’autogestione

Ho conosciuto il collettivo musicale di Radio Punk tramite Marco Pandin. Le persone di Radio Punk mi hanno subito incuriosito per la capacità con cui producono musica, il materiale informativo connesso dei gruppi del loro giro. Insomma una vera autogestione indipendente fuori dagli schemi, fuori dalle regole affaristiche discografiche.

Radio Punk logo

Domanda: Mi racconti come è nato Radio Punk?
Risposta: Radio Punk nasce nel 2011 dall’idea di formare una web-radio. Idea poi accantonata per far spazio alla webzine con news, recensioni, interviste e report. Nel 2016 nasce l’etichetta e distro e facciamo anche delle autoproduzioni, ora siamo molto attivi con le spillette ad esempio, che facciamo anche su commissione. Dal 2020 abbiamo rivoluzionato il sito rendendo la piattaforma libera a chiunque voglia proporci uno scritto di qualsiasi tipo, non solo sul punk. Purchè abbia a che fare col DIY e con le sottoculture. Adesso definiamo Radio Punk come un insieme di progetti, sempre in evoluzione. Attualmente i progetti sono appunto la webzine, la distro che portiamo ai concerti, l’etichetta con cui facciamo co-produzioni (siamo a circa una trentina ad oggi), il mailorder con cui gestiamo gli ordini visto che facciamo anche spedizioni di ciò che abbiamo in distro, le autoproduzioni, le playlist su Spotify molto utili per spargere il verbo tra i più giovani e altro ancora arriverà!

D: Di dove siete?
R: Siamo sparsi in giro per il globo, è una redazione “apolide”, siamo in 5 attualmente in collettivo, anche se ci piace considerare parte della ciurma anche chi scrive una sola volta, chi ci aiuta con le traduzioni, con qualche grafica e così via. Come distro invece per ovvi motivi è fisicamente in un posto, che è Bologna. Ma nessuno di noi è originario di Bologna, anzi, veniamo tutti dalle più disparate province italiane.

D: Cosa vuol dire oggi DIY (fare da sé)? Perché importante essere indipendenti?
R: DIY per noi è vita. è fare da soli, senza vincoli nè imposizioni. Ma soprattutto per noi è serietà, rispetto e vera autogestione. Fare da sè viene spessissimo confuso col fare poco e male. Per noi è cercare di fare qualsiasi cosa con amor proprio e senza sottostare a niente e nessuno. è importante essere indipendenti per il semplice fatto che “qual è il meglio per me, lo so solo io, qual è il meglio per te, lo sai solo tu” (citazione tratta da “Città Modello” dei Tear Me Down). Essere indipendenti, in sintesi è avere il totale controllo di ciò che si fa. Fare quello che si vuole, come si vuole nel rispetto di chi ti circonda è l’essenza del punk e dell’autogestione e perciò è importantissimo, senza se e senza ma.

D: Raccontami della distro?
R: Nasce per cercare di autofinanziare sito e materiale vario di Radio Punk. Vista la nostra passione per i formati fisici, ovvero dischi, cd, libri e fanzine decidiamo quindi di aprire l’etichetta con la quale far uscire dei dischi in coproduzione sostenendo le band e le idee che stanno in un disco. La distro serve appunto a distribuire le uscite dell’etichetta e non solo, infatti ad oggi abbiamo centinaia di dischi, cd, libri e spillette che portiamo col banchetto ai concerti e mercatini di autoproduzione. Portare il banchetto ai concerti è un modo per dire “ehi ci siamo anche noi!” e soprattutto per non partecipare come semplici fruitori ma essere parte attiva di quel determinato momento.

D: Come avete conosciuto Marco Pandin di stella*nera?
R: Ha conosciuto personalmente solo uno di noi, Tom, a cui lasciamo la parola. “L’ho conosciuto molti anni fa a Pordenone, al Prefabbrikato. C’era un’iniziativa sui Crass. Ricordo che feci una grafica demmerda, molto punk se vogliamo essere paraculi, la realtà è che era veramente brutta. Praticamente era fatta scrivendo a penna le informazioni (ho una grafia da gallina, ma che dico non insultiamo le galline!) su un disegno dei crass e scannerizzando il tutto. Marco Pandin disse che era bellissima e a fine iniziativa gli dissi che avevo fatto io quella merda ahahha. Mi entusiasmava moltissimo quel suo modo di parlare, riuscirebbe a rendere divertente pure la Formula 1 come dico sempre.” Anni dopo abbiamo letto il suo articolo “Cose belle…” sul vostro sito e l’abbiamo contattato chiedendogli se voleva scrivere qualcosa sul nostro sito, dato che la call è sempre aperta a tutti. Ci ha risposto entusiasta e poi sempre Tom l’ha rivisto ad un concerto e da lì ogni volta che viene a Bologna ci si vede e si beve un bianco o un amaro insieme!

D: Ha ancora senso oggi essere “punk”?
R: Domanda che necessiterebbe di ore e ore di chiacchierata. E
speriamo che ciò accada presto. Detto ciò rispondiamo brevemente dicendo che non avendo vissuto in prima persona la nascita e la golden age del punk, per noi ha senso quello che per noi rappresenta il punk, ma che per qualcun altro potrebbe non essere così e amen. Ha senso per noi quindi l’essere dalla parte degli ultimi, dei disadattati, degli emarginati, degli esclusi. Stiamo bene nella nostra nicchia di libertà, autogestione, solidarietà e condivisione senza patria e padroni, dove non girano soldi a palate e manager sanguisughe. Dove non esiste il concetto borghese di “normalità” e dove non c’è spazio alcuno per il fascismo, il razzismo, il sessismo, il machismo, il militarismo e la prevaricazione in generale. Questo siamo noi, questo ci piace, questo ha senso per noi. Ci sono molte persone che per punk intendono pogo violento e forsennato, ascoltare un diverso tipo di musica e basta, farsi la cresta, mettere un chiodo, sognare di essere headliner ad un fest e diventare famosi. Beh in questo caso, se è questo il punk, speriamo fortemente che muoia il prima possibile!

Per ascoltare, restare aggiornati, leggere, spulciare il catalogo, si può andare sul sito web di Radio Punk.

Cose belle del 2022 di Marco Pandin

Marco Pandin mi ha scritto le 13 cose belle del 2022. Sono sempre preziose per me, sono un bel regalo ed un appuntamento per rinnovare l’affetto e l’amicizia che ci lega. Penso siano importanti ed interessanti da leggere, del resto come quelle del 2021. Buona lettura, visione ed ascolto.

13 cose belle di Marco Pandin

Tredici cose belle del 2022.

Libri riviste dischi concerti incontri in ordine sparso, forse in ordine di temperatura. Tredici perché questo numero accende la superstizione.

– L’album “Solace” dell’irlandese Patrick Dexter, uscito in primavera. Musica immaginata e offerta da tutt’altro punto di vista [qui https://www.youtube.com/watch?v=YVDlIaRagCI un assaggio]. Registrata all’aperto verosimilmente lontano dalla città, nei microfoni entrano il violoncello e il fruscio disturbante dei ragionamenti a proposito della pandemia, ma anche il respiro del musicista e quello dello strumento, e l’aria che si sposta, e il canto degli uccelli, gli insetti curiosi che si avvicinano ai microfoni, le foglie sugli alberi e il va e vieni delle nuvole sullo sfondo. Manca solo il cane dei vicini, ma potrebbe anche esserci e non ci si fa proprio caso. Fa sorridere e insieme riflettere che venga pubblicato oggi un disco immaginato e realizzato in questo modo biologico e naturale e pacifico dopo decenni di battaglie sanguinose per conquistare artificialmente in studio il silenzio su cui costruire e far risaltare il suono nella sua purezza più glaciale. Ma così sembra tutto più caldo ed umano, e attraverso le orecchie senti il sole che ti entra sotto la pelle, e con lui in punta di piedi entrano tutto il verde dell’erba e l’azzurro del cielo e i sussurri delle api a risvegliare ogni amore di ogni bestia che tieni nascosta dentro. Addormentarsi in compagnia di questo disco è bellissimo. Lasciatelo proseguire, perché risvegliarsi mentre suona questo disco è, se possibile, ancora più bello ed appagante.

Toni Bruna che a mezzanotte canta e suona e racconta storie davanti al teatro Miela di Trieste, metà marzo. Al suo concerto quella sera erano rimaste fuori parecchie persone senza biglietto e senza green pass – e non era giusto. Così a un certo punto ha detto due parole, ha abbandonato il palco e la sala e si è messo lì fuori a fare il busker, davanti a cento e più anime in fiamme nonostante il borino. Cosa vi posso dire io di quelle sue canzoni di confine, che raccontano di gente rimasta sola e di posti rimasti soli senza la gente. Così esili, fatte d’acqua e d’aria, così leggere ad attraversare in volo le nostre discussioni e ragionamenti, i campi di grano e di battaglia, nazioni in conflitto e conflitti televisivi, le dogane, i cimiteri, il mare. Sono canzoni di costituzione fragile, che sembrano poco adatte a cantare di resistenze e rivoluzioni, eppure ciascuna si rivela come un modo diverso e inedito di parlare d’amore. Gli chiedo come fa, lui dice che le parole gli escono fuori così e non sa come mai. Adoro come fa strisciare le dita sulle corde della chitarra quando cambia gli accordi: è proprio lo stesso rumore che ho dentro in testa ogni volta che cambio idea, quando mi nasce un’idea nuova.

– l’album “Afrikan culture” di Shabaka Hutchings, uscito poco prima dell’estate, è uno di quei dischi che ti alzano di un metro o due da terra e ti lasciano là. All’inizio sembra quasi che si siano sbagliati e che dentro la copertina sia finito un disco di Stephan Micus. L’ha pubblicato una major, forse si saranno sbagliati anche loro – avranno creduto fosse jazz da vendere ai bancari. Nei negozi lo vendono ai bancari come jazz. E invece dentro ci sono i leoni, le terre perse, le schegge della mezzanotte, le barene dove non sei in terra né in acqua, i posti inesplorati che stanno dopo l’ultima fermata dell’autobus. Un continente intero di suggestioni compresso in una mezz’ora scarsa. Un’eruzione esplosiva di spiriti e presenze, migliaia e migliaia di metri cubi di rovente ispirazione ancestrale rilasciati nell’atmosfera. Tutt’altro che un documentario, una mappa o una profezia, o forse le tre cose insieme. Sono andato a rileggermi Iosif Brodskij che raccontava la precarietà dell’equilibrio e l’allarme dei sensi durante un viaggio in vaporetto, lui abituato com’era alla terraferma e al freddo. Un lavoro di una bellezza sconfinata e irraccontabile questo di Hutchings – e infatti è un po’ che sono qui che scrivo e cancello e riscrivo e cancello ancora queste ultime due tre righe senza trovare niente che si avvicini alle onde alte che mi si agitano nello stomaco e dietro gli occhi. Se esistono gli dei, li trovi sui vaporetti verso Castello e hanno di certo questo disco piazzato in loop perpetuo dentro i loro walkman.

– le ultime poesie di Gregory Corso, raccolte in “The golden dot” e stampate da Lithic Press in agosto [info e richieste qui www.lithicpress.com]. Molte sono senza titolo, solo la prima è al suo posto e forse anche la seconda mentre tutte le altre sono in ordine casuale – come voleva lui. Sono un viaggio che si trascina dentro gli anni che seguono la morte del suo amico e mentore Allen Ginsberg, viaggio tormentato dalla depressione e da reiterati disastri di salute e che si chiude con la morte di Corso avvenuta nel gennaio del millennio nuovo che lui desiderava fortemente toccare con le dita. Figlio di due minorenni poverissimi di origine italiana e presto abbandonato, aveva passato l’infanzia tra orfanotrofi e affidamenti temporanei, e l’adolescenza tra la strada e il riformatorio. E’ finito dietro le sbarre a diciassette anni per aver rubato di che vestirsi – messa così somiglia a una storia di quelle che raccontano in chiesa. E’ nella biblioteca del carcere che Gregory trova ispirazione e riscatto, i suoi compagni di prigionia sono i suoi angeli. Nel libro i curatori spiegano perché ci siano voluti vent’anni per pubblicare queste righe preziose. Corso è uno dei miei poeti preferiti. Nell’estate del 1980 ho avuto la fortuna e il privilegio di assistere a una sua breve lettura: indossava la divisa dello sbruffone, ma nascosto sotto c’era uno spirito sensibile che continuava a meravigliarsi della sua popolarità, e a temerla – come temeva la solitudine.

– il docufilm “Po” di Andrea Segre e Gian Antonio Stella uscito nelle sale a marzo [qui https://www.youtube.com/watch?v=FT4tyi9H7g8 un estratto]. Un’ora e mezza di accelerazioni e strattoni del cuore durante la quale ho messo a confronto le immagini che mi scorrevano dinanzi con i racconti dei miei genitori e dei miei nonni. Storie di quando non ero ancora nato, successe per davvero solamente qualche anno prima dal mio arrivo e che però ho sempre immaginato leggende da chissà quale passato remoto, il tutto filtrato attraverso la mia esperienza piccola – l’acqua granda del 1966 che ancora ricordo distintamente. Sono le storie minime tipiche della gente povera, fatte di roba poco consistente come schegge, calcinacci, segni sui muri, attimi, polvere, gocce, illusioni, e qualche cosa grossa che non si dimentica come la condivisione, la speranza, le parole che guariscono e il sostegno reciproco. Storie dove a volte basta solo un sorriso per squarciare la nebbia più nera e alleggerire il carico grave della miseria. Il documentario racconta una cosa importante, che è poi la stessa che aveva insegnato il grande vecchio Mario Rigoni Stern: è solo soffermandosi ad ascoltare e raccogliere tutte le piccole storie che la Storia può meritarsi un’iniziale maiuscola orgogliosa e fiera e che perdura. Poi però nei libri va a finire quell’altra, quella che insegnano a brandelli nelle scuole e omogeneizzata dentro le televisioni e che io scrivo apposta in minuscolo: storia che ha la stessa voce del padrone e viene descritta invariabilmente da quelli che hanno imparato a scrivere sotto la dettatura feroce di chi ha vinto.

– Tiziano Sgarbi che canta in una piccola corte giù sotto casa prima di un suo amico olandese, ai primi di giugno. Senza amplificazione, senza microfono, senza segreti e senza mi cantino. Non lo vedevo da un po’, da quando si faceva chiamare Bob Corn: quei vestiti che nascondono male la sua magrezza, il grigio dei capelli che non riesce ad annacquare la sua determinazione, la sua irrequietezza inossidabile al tempo che passa. Stiamo parlando di uno che ha impastato con le sue mani la scena indipendente del nostro paese, giusto per puntualizzare. Fa solo pochi pezzi, uno è di Will Oldham un altro non ricordo di chi. A un certo punto racconta “La mela di Odessa” e io vado in frantumi, e mentre sono là che cerco di raccogliere i pezzi da terra mi accorgo che il peso di questi anni di ciarpame new wave pop punk non è affatto riuscito a schiacciarmi. E nonostante la musica leggerissima che cola giù dalle radioline e dai telefonini del mondo intero io ritrovo respiro, e ritrovo aria, e ritrovo luce e voglia, e mi ricarico di salute, di propositi, di energia buona, di futuri possibili. Il suo amico olandese è Zea cioè Arnold De Boer cioè cazzo il cantante degli Ex – che per me significa ritrovarmi ad abbracciare quella persona che per anni mi ha tenuto per mano e sorretto mentre ero preso a non affogare nella sfiga, ma che ho solamente potuto intravedere di sfuggita dentro ai dischi. E invece di dirgli grazie e raccontargli tutto riesco solo a restarmene là col respiro sospeso, gli occhi umidi e le parole incastrate in gola.

– la performance di Path in apertura del concerto degli Ombra al Tank di Bologna, verso metà aprile. Luci basse e odore acre di disordine misto a birra spanta, come il giorno dopo un party. Eccolo che entra, lupo grigio che neanche si guarda intorno, in un attimo è già sul palco. Tiene lo sguardo raso terra sì, ma dai denti gli escono versi roventi e le parole sono pallottole. E’ così abile che neanche prende la mira: al primo pezzo ero là stordito, mi ha fatto fuori al secondo. Me li vedo già tutti quei miei amici sapienti e criticoni, quelli che si annoiano perché hanno ormai già ascoltato e capito tutto, a disquisire sulle percentuali di Woody Guthrie e di Billy Bragg dosate dentro a questa voce giovane. Voglio tanto bene a Woody e a Billy ma lasciamoli stare dove sono per carità, per me è Path e basta. Path che canta quelle sue canzoni arruffate e con poca speranza dentro cui ho ritrovato un pezzo di me, ed è un pezzo che sanguina forte: mi guarda fisso negli occhi e non sorride affatto.

– il libro “La Resistenza in 100 canti” curato da Alessio Lega uscito ad aprile [cercatelo qui www.mimesisedizioni.it oppure qui www.alessiolega.it]. Duecentocinquanta pagine abbondanti. Un mattone, e bello pesante, che può venire utile: prendendo con attenzione la mira lo si può scagliare contro le finestre pulite dei palazzi di chi comanda. Il mio caro amico e fratello e compagno salentino ha raccolto una serie di scritti commoventi, offrendo per ciascuna canzone una bella storia che ha per protagonisti ragazze e ragazzi disposti a sacrificare sé stessi e il loro futuro piuttosto che vivere senza libertà. E sono storie vere, pensate: c’è gente che si è addirittura fatta ammazzare per permettere a me e a voi di cantare. Lo si dovrebbe far circolare nelle scuole per educare i bambini alla solidarietà e alla gentilezza, e invece è un libro che davvero non ha posto in questo paese di sottosegretari e memorie tagliate corte.

– il concerto di Silva Cantele a.k.a. Phill Reynolds in un quartiere défavorisée a Padova, fine luglio [qui https://www.youtube.com/watch?v=0IW_WG25YtM una scheggia dimostrativa]. Ho abitato proprio lì vicino per quasi dieci anni, solo qualche strada più in là verso la stazione dei treni, e per i trent’anni precedenti a Mestre – una periferia anonima e qualsiasi grigioscura di rassegnazione e avvelenata di cemento armato, asfalto e smog. L’Arcella è uno di quei posti lontani dalle passeggiate delle domeniche perbene che i quotidiani e le televisioni locali raccontano sempre e soltanto in termini di disagio, malessere, maleducazione e insofferenza, eppure c’è parecchia gente intorno che smette presto di guardare i telefonini chiacchierare e bere birra, si avvicina e ascolta con attenzione. Questa sera Silva presenta “A ride”, il nuovo lavoro appena pubblicato: storie di strada, di fuga, di sbarre, di pioggia dura che cade. Usa la chitarra come se imbracciasse un fucile, lei ricambia le sue carezze muorendogli d’amore tra le mani. Ogni tanto la maltratta (per il bis la prende a schiaffi ottenendo in cambio una “Ring of fire” da urlo), ci annoda sopra arpeggi irregolari e urgenti e scattosi. Lo so bene che bestemmio, e chissenefrega, ma stasera mi sembra proprio come Johnny Cash quella volta a Folsom o a San Quentin per i carcerati – una rasoiata ogni rima, un calcio sui coglioni ogni strofa, ogni ritornello un chiodo che ti striscia sulla schiena e si conficca fra le costole.

– il concerto dei Caged al CS Brigata di Imola, maggio. Stavamo mangiando allo stesso tavolo – figuriamoci, io avevo appena conosciuto Serena la batterista ma stavamo parlando di tutt’altro, mezz’ora prima manco sapevo che con quegli altri ci suonasse insieme. Si chiacchiera, loro tutti belle facce, svegli, bravi, simpatici. Una compagnia piacevole in un posto accogliente e che funziona bene – cosa chiedere di più. Al nostro tavolo si aggiungono altre ragazze e ragazzi. Tanti auguri a Berto il tecnico tuttofare – torta di compleanno a sorpresa, si fa un pezzetto ciascuno. Neanche due minuti dopo tocca a loro. Attaccano – e nel senso guerresco e incendiario della parola. Cazzo, che impatto: decisi, precisi, martellanti e determinati – tengono il livello della tensione sempre molto alto proprio come voglio io nei miei desideri sonori più sporchi. Un torrente di lava che brucia tutto, che travolge e butta giù tutto ma che lascia dietro sé terreno nuovo e vivo. A fine concerto mi fiondo a ringraziarli mostrando tutto il mio stupore e la mia ammirazione, loro sorridono e il cantante si schermisce e mi chiede scusa perché è sudato.

– il fumetto “Our true colors” di Gengoroh Tagame, tradotto in italiano e pubblicato da Panini a giugno [sito ufficiale qui www.tagame.org, ma non cliccateci sopra se siete impressionabili]. Alcune cose del medesimo autore le trovate tradotte in inglese, francese e spagnolo nei formati per e-book. In italiano c’è poco o niente: nelle librerie più fornite e online ci sono soltanto quest’ultima opera e il precedente volume “Il marito di mio fratello” (2017), pubblicato sempre da Panini. Va anche detto che questi bara non sono cose da leggere disinvoltamente in treno o nella sala d’aspetto del medico di base, per cui capisco quanto sia difficile prodigarsi a diffondere i lavori di questo mitico disegnatore giapponese. Quarant’anni di carriera che lo hanno fatto divenire un riferimento internazionale. Cazzi e culi spremuti dentro a dozzine di storie esplicite, ciascuna un vero e proprio monumento grafico alla sopraffazione, storie d’amore passate attraverso un distorsore dentro alle quali come minimo ci si pesta duro e ci si fa male – “The house of brutes” e “The silver flower” le più drammatiche. Nei lavori più recenti di Tagame attraverso le tavole i gemiti e i fluidi corporei si fa però largo spazio a sentimenti, ragionamenti e condivisione. Dove ne “Il marito di mio fratello” il centro della riflessione è una ridiscussione della forma e della funzione sociale della struttura familiare, in “Our colors” ci si concentra sulle difficoltà e le fragilità dell’adolescenza e sul processo lento e delicato di costruzione dell’identità. Trovo siano entrambi dei libri da far leggere ai ragazzini, anzi che siano libri da leggere assieme ai ragazzini essendo disposti ad affrontare domande spinose e a dare risposte guardandoli in faccia. Libri che accendono arcobaleni in cielo e nel cuore, e migliorano questo mondo.

– i Nêuvegramme che suonano al Raindogs di Savona, metà giugno. Sì d’accordo il loro disco nuovo “L’inesausta tensione” è breve ma ben fatto e ben strutturato, suoni curati e parecchia attenzione ai dettagli – un’autoproduzione a cinque stelle. Ma ciò che esce e soprattutto ciò che mi resta dentro da questa performance è davvero tutt’altra cosa, non so se riesco a prenderne le misure. Il concerto è complicato e stupefacente e mi accende in testa tanti pensieri e altrettanti ricordi. Mi piace che dal palco non facciano prediche né promesse. Diversamente da quanto facevamo noi una volta, incontro sempre più spesso dei giovani musicisti che si impegnano a studiare, a leggere, ad esercitarsi, a conoscere, a ragionare prima di salire su un palco o di mettersi a registrare. A cose così noi allora generalmente non ci si pensava, tutti quei nostri discorsi sulla spontaneità e sull’improvvisazione che così spesso erano solo maschere appiccicate alla faccia della nostra inadeguatezza. Penso che se i Nêuvegramme ci fossero stati quarant’anni fa avrebbero polverizzato la scena, e forse proprio per questa ragione credo sia meglio se ne stiano a suonare le loro cose in quest’oggi, in questo presente, forse in qualche modo vagamente debitori al punk di allora ma culturalmente lontanissimi dai sedicenti combattenti del passato – guarda che fine di merda hanno (…abbiamo) fatto. Penso che la musica nuova per mantenersi viva e diffondere amore e ispirazione debba tenersi lontana anche dalle corse dei cani e dai raduni dove si arriva a conquistare un quarto d’ora sotto i riflettori giocando sporco al massacro contro altri ragazzi che hanno la sola colpa di condividere i tuoi stessi desideri. E penso anche che questo sia il più bel concerto a cui ho assistito quest’anno (facciamo a pari merito con i canadesi Godspeed You Black Emperor a Bologna a ottobre, dai).

– “Designing riots”, rivista illustrata per canaglie, tre numeri usciti fra febbraio e settembre. Formato tascabile, tutti belli da guardare e molto istruttivi da leggere – estrapolo una frase a caso: “Usa la tua creatività: i nostri nemici sono privi di fantasia, prevedibili, reagiscono in modo meccanico e di fronte alla novità sono spesso impreparati…”. Sembrano le note che farcivano uno qualsiasi degli ultimi dischi dei Crass, periodo Stop the City – al tempo si pensava diffusamente che rispetto all’hc americano muscoloso e palle in mostra quei poveri hippies vegetariani fossero sbiaditi e patetici, ma quello che i Crass urlavano si è poi rivelato essere il nostro presente e la nostra normalità merdosa di questi anni. Poche pagine ogni numero, una quarantina, che dire dense di ispirazione è riduttivo. Ognuna un manuale di istruzioni per come muoversi per le strade in consapevolezza e in sicurezza che potrebbe tornare utile e, metti che succeda un’altra Diaz, rivelarsi prezioso in uno qualsiasi di questi giorni di governo nuovo.

– il film “Margini” diretto da Niccolò Falsetti, uscito in sala a settembre [qui https://www.youtube.com/watch?v=LZUVlzIPltY il trailer ufficiale]. Raccontata con le parole che ci abitano abitualmente in bocca, è la storia di quando i sogni sono troppo grandi per essere compresi dalla realtà delle cose, dalla cosiddetta normalità. Eppure senza sogni, soprattutto senza grandi sogni, la vita non va avanti – è che a un certo punto tanti smettono e si chiudono in casa, ordinano pizze e sushi che qualcuno gli porta in cambio di uno scontrino e di un’elemosina, e sprecano ore di vita fra TikTok e YouTube. Per farla breve e senza spoilerare troppo il film racconta la storia di tre amici che suonano in un gruppo e si sbattono per restare a galla dentro a una provincia immobile. La musica è il collante che tiene insieme loro e l’intera loro rete di relazioni e di amori, tutti bellissimi e tutti disperati. Sembra che anneghino nella sfiga, in verità stanno conquistando la loro vita colpo su colpo finendo ciascuno col piantare una bandiera nera a sventolare sulla vetta. “Margini” racconta cose che sono successe spesso e ovunque, e ridotte presto al silenzio e all’oblio, già da poco dopo la metà degli anni Ottanta in una qualsiasi periferia occidentale. E’ proprio vero: per certi sogni smisurati qui fuori, qui nel mondo dove finiscono le pacchie, non c’è affatto posto.

Mi aggancio a quest’ultimo pezzo. La cosa più bella di quest’anno me l’hanno regalata dei miei vecchi compagni. Nel corso del 2021 avevo curato un libro/cd/dvd dei Kina, che poi nel 2022 abbiamo presentato e discusso in giro: ecco, girare a fare presentazioni e proiezioni con Gianpiero e Sergio e gli altri mi ha restituito quello che la sfortuna tanti anni fa mi aveva portato via. Col pretesto di questi incontri ho avvicinato ragazze e ragazzi meravigliosi che si fanno un culo della madonna per mantenere aperti e puliti e funzionanti degli spazi liberi. Quando avevo vent’anni dai palchi volevano convincermi che il futuro non ci fosse più: era gente già ricca che voleva anche i miei soldi, era gente grigia e spenta che voleva i miei sogni, era gente già morta che voleva la mia giovinezza. Non gli ho creduto affatto, perché pensavo che il mio futuro dipendesse per grande parte da me, ed è bellissimo rendersi conto oggi a 65 anni suonati (ma non è stata una scoperta tardiva, quanto una serie di conferme giunte nel corso del tempo) che valeva la pena non arrendersi e sbattersi e lottare, e che non ho affatto finito di imparare, di conoscere, di avvicinare, scambiare, migliorare. Grazie a tutti voi che mi state allungando e rendendo così dolce e interessante la vita. Dico a voi. Siete voi il futuro, adesso. Guardatevi, come siete belli.

Ostrega, sono quattordici. Non vale. Grazie per avermi ancora fatto posto qui. Grazie tantissime.

Marco Pandin
stella_nera@tin.it

Dirt – Never Mind Dirt – Here’s The Bollocks (1983)

Dirt - Never Mind Dirt - Here's The Bollocks

I Dirt erano un gruppo inglese appartenente alla scena anarco-punk degli anni’80. Ascoltando questo disco, si sente tuttora l’urgenza e la voglia irrefrenabile di suonare e urlare la propria libertà, per non conformarsi ad uno stile di vita, imposto dal sistema.

Il sistema c’è
Il sistema rimarrà
Dominerà il sistema
Ok!

Controllo delle nascite
Controllo della vita
Controllo della morte

L’educazione del loro sbagliato e giusto
Del loro ordine e della loro legge
Non prenderlo è solo una truffa
Non prenderlo sai che è sbagliato
È solo una facciata per poterti sparare È solo una facciata per poterti imbrogliare

L’OGGETTO RIFIUTA RIFIUTA L’ABUSO
L’OGGETTO RIFIUTA RIFIUTA L’ABUSO (coro ripetuto) …

Testo liberamente tradotto dalla canzone Democracy dei Dirt

Nei concerti i Dirt davano sempre il meglio, rispetto che alle registrazioni in studio, quindi ecco spiegata la scelta di incidere dal vivo l’album. Chitarre sferraglianti, basso e batteria suonano potenti, alternando le voci nelle canzoni fra la cantante Deno e il chitarrista Gary. Entrambi i cantanti riescono intensamente a cantare con rabbia e passione. La voce femminile di Deno è stridula per enfatizzare il cantato di protesta. Nell’album ci sono dei brevi dialoghi fra Deno e gli altri membri dei Dirt, curiosamente la voce della cantante nel parlato è deliziosa.

Il disco fu registrato dal vivo al New Half Moon – Stepney, il 5 Aprile 1982. La produzione fu curata da Pete Right dei Crass. Il mixing fu fatto ai Southern Studios di John Loder, compagno e tecnico del suono della Crass Records. Never Mind Dirt – Here’s The Bollocks dei Dirt uscì nel Gennaio del 1983, quando il gruppo si era sciolto da poco meno di un mese. Il disco è un LP a 45rpm.

Cose belle del 2021 di Marco Pandin

Le cose belle del 2021 di Marco Pandin

Pochi giorni fa, abbiamo scambiato qualche parola con l’amico Marco Pandin di stella * nera. Si scherzava sulla mia Non classifica musicale 2021. Marco mi diceva che è da tempo memorabile che vorrebbe farne una alla fine di ogni anno… e quest’anno eccola! L’ho trovata interessante e sorprendente, non solo per i contenuti musicali, ma anche per le pubblicazioni editoriali. Buone letture ed ascolti!

Cose belle del 2021 (in ordine sparso e partigiano)

– gli articoli di Alessandro Kola sul sito di Radio Città Aperta – Neurotic vibes neurotic minds (www.radiocittaperta.it/cat/musica). Scritti bene, con attenzione e rispetto, mettendoci impegno, la giusta serietà e una bella fetta grossa di cuore. Si capisce presto che Alessandro è troppo giovane per aver vissuto gli anni Ottanta e i fatti che si prende la briga di raccontare, ma immediatamente dopo ti accorgi che questo non è un problema. Perché lui è uno che ci crede – molto di più di tanti che una volta, microfono e/o megafono in mano, dichiaravano ad alta voce di farlo e invece erano fabbriche tossiche di risentimento e di rancore.

– il libro di Laura Carroli sui Raf Punk (www.agenziax.it/schiavi-nella-citta-piu-libera-del-mondo). Un’isola a sé, che non c’entra un cazzo col resto delle memorie di maschietti borchiati & invecchiati uscite al supermercato in questi 20/25 anni – ciascuna una lapide sulla tomba del punk biancorossoeverde. Laura racconta di sé, dei suoi dubbi, delle incertezze, delle paure da scavalcare, dei tentativi, delle difficoltà. Nel libro lei è bella come la luna e terribile come un esercito schierato (citazione colta). Guarda come e dove sono finiti quelli che di dubbi non ne avevano: assessori, sindaci, portaborse, intermediari e ruffiani, padroni di cani, faccendieri, presidenti di qualunque cosa, addirittura predicatori, persino cantanti. Una volta stavano a tuonare e scorreggiare dentro le fanzine, oggi a mostrare il lavoro del dentista dentro ai giornali che ti danno quando sei in coda dalla parrucchiera.

– il concerto dei Crancy Crock (www.crancycrock.it) all’Anarchist Bookfair messa in piedi dal circolo Underground un sabato di metà dicembre, al Bafo di Seriate BG. Hanno piazzato il banchetto proprio vicino a quello di stella*nera, sembrano simpatici e dopo un po’ scopro che hanno già autoprodotto 4 o 5 cd e io neanche sospettavo esistessero – sono un pozzo di ignoranza, lo so e non c’è rimedio. Tocca a loro. Il tempo di ficcare il jack nell’amplificatore e guardarsi in faccia, un attimo di vuoto e i cinque attaccano a pestare duro. Sembra un frullato padano e gioioso di UK Subs e Stiff Little Fingers e quello-che-volete-voi che spazza via con un sorriso tutta la merda di questi quarant’anni. Mi sono divertito come una bestia – ed era ora, cazzo.

– il concerto in streaming gratuito del 27 marzo con cui i Godspeed You Black Emperor (cstrecords.com/pages/godspeed-you-black-emperor) hanno presentato in anteprima il nuovo album “G_d’s Pee at state’s end“, uscito la settimana successiva. Le telecamere non erano puntate sui musicisti ma indietro, al fondo del palco, sul lavoro cinematografico di Karl Lemieux e Philippe Leonard che accompagna abitualmente le loro performance. Un monumento sonoro in un cinema deserto. Questa per me è la speranza con un vestito nero che le sta addosso bene. E’ musica che mi trivella in profondità.

– la maglietta dei Kina disegnata da Chiara Gattuso (chiaragattuso.it) e stampata benissimo da Rox in occasione dell’uscita del cd con le registrazioni del reunion tour 2019. Non aggiungo commenti perché potrebbe sembrare un’autopromozione.

– il nuovo libro di Paolo Cognetti “La felicità del lupo” (il blog paolocognetti.blogspot.com non appare aggiornato da tempo, purtroppo). Lui mette insieme le parole in un modo che ti strappa il respiro dalla gola. Pensavo che il suo ottomila fosse stato “Le otto montagne”. E invece poi ha scritto “Senza mai arrivare in cima” e adesso quest’altro che mi lasciano seduto per terra in mezzo al bosco. Mi sembra di essere come quella volta Oliver Sachs in Norvegia: gamba rotta, telefonino che non prende, arriva sera e io che però non ho paura.

– il film di Sophie Deraspe “Antigone” (official trailer al link: www.youtube.com/watch?v=3fFG0wYyR0Q), è del 2019 ma in Italia è uscito solo a novembre. Una storia senza vie d’uscita fatta di violenza, morte, ingiustizia e sopraffazione. Una storia già scritta duemilacinquecento anni fa ma che accade oggi: a cinque minuti dall’inizio cominci a ripeterti come un mantra che è un film, che non è vero, che è solo un film, che non può essere vero. La storia si interrompe malamente, si accendono le luci in sala e tu annaspi verso l’uscita dal cinema, fai finta di niente, ti aggiusti la mascherina, torni a casa, ti prepari qualcosa da mangiare e dopo un po’ ti sembra tutto come prima. Poi d’improvviso rieccola, la storia: armata di casco protettivo, sfollagente d’ordinanza, spray OC e anfibi chiodati, eccola a buttarti giù la porta di casa mentre stai dormendo.

– la ristampa di “Venezia” di Gigi Masin (store.silentes.it) – un atto d’amore, di quelli teneri e disperati. Il cd accompagnava un libro di fotografie di Stefano Gentile uscito in edizione limitata nel 2016 e presto esaurito. Quando ero ragazzo mi piaceva camminare per Venezia perché riuscivo a sentire il suono dei miei passi, come succedeva in montagna. Adesso mi piace immaginare quasi ogni calle abitata da questo suono. Gigi è una rondine venuta a fare il nido accanto alla tua finestra: l’inverno la porta via ogni anno, e lei che poi ritorna. Altro sogno in contemporanea, oppure volendo altro incubo: lungo il perenne carnevale artificiale degli itinerari turistici (la voce registrata del doge che intima: seguire le frecce gialle, please) tra la calca risuonano implacabili le Quattro Stagioni passate sotto il bisturi, lo schiacciasassi e la fiamma ossidrica di Max Richter.

– le “Memorie di un filologo complottista” scritte da Francesco Benozzo (www.francescobenozzo.net). Perché a un certo punto io nei miei dubbi mi perdo, devo tornare indietro, devo rileggere, devo scavare, devo mettere insieme i pezzi, devo capire o almeno devo provarci.

– la fanzine Miseria Nera (www.miserianera.com). Nel numero zero di scritto solo tre righe (e copiate da altrove) a pagina tre, tutto il resto sono foto b/n di Luca Benedet e Matteo Bosonetto. Ogni immagine una storia lunga, contorta, spinosa, divertente oppure nera di malinconia.

– la meravigliosa ristampa di “On the Mesa” (the-song-cave.com), una raccolta mitica uscita nel 1971 per la City Lights di Lawrence Ferlinghetti, e in versione espansa per Song Cave lo scorso marzo. Un libro di poesie beat che al tempo delle scuole superiori ho solo potuto leggere spezzettato/disperso su fogli underground e tutto intero solo in sogno. Adesso, dopo cinquant’anni e con gli occhi vecchi, posso tenerlo fra le mani e finalmente sprofondarci dentro. Ci hanno aggiunto persone e parole, e in mezzo a Richard Brautigan, Diane Di Prima, Anne Waldman, Robert Creely e tutti gli altri ritrovo un me stesso teenager spalanuvole. Sono convinto che quegli americani non immaginassero affatto che un po’ dell’aria mossa dal loro fiato giungesse dopo millemila chilometri fino alla mia stanza, ai confini dell’impero. C’è addirittura quel Jim Carroll che ho amato in versione disintossicata quand’era punk quasi come Patti Smith – ho sognato di giocarci insieme a pallacanestro, proprio io che mi muovo con l’agilità sportiva di una bestia morta.

– la “Lettera a chi non c’era” di Franco Arminio (www.bompiani.it), uscito a giugno. Il piatto rotto in copertina mi ha messo in allarme, e non ho detto niente. La nota d’avvio mi ha messo in allarme, e io non ho prestato attenzione. E anche le prime pagine mi hanno messo in allarme, e presto ho cominciato a capire perché. A ogni giro di pagina successivo mi suonavano dentro in testa la sirena dell’acqua alta e quella degli incidenti al Petrolchimico e quella dell’ambulanza che veniva a portare via mio padre di notte. Adoro quegli scrittori che ti mettono le mani addosso: ogni parola come neve che ti si appoggia sulle spalle e le carica di un peso lieve che non sai avvertire né quantificare, ogni parola goccia d’acqua che si insinua nelle tue crepe e arriva a minare i tuoi muri maestri. Mi piacerebbe incontrarlo, lui, restare ad ascoltarlo per ore e annegare in frantumi dentro a tutta l’acqua chiara che gli esce dalle labbra e dalle dita. Questo libro è magnetico e definitivo come un buco nero, mi ha scosso profondamente e faccio fatica a finirlo – dopo sei mesi oggi 1 gennaio 2022 sono arrivato, arrancando sui gomiti, solo a pagina 143.

– e facciamola, anche se di sponda, un’autopromozione. Un paio di anni fa scopro tra le pagine di Umanità Nova (umanitanova.org) una rubrica in cui l’autore, un ventenne evidentemente che si fa chiamare En-Ri.ot, cerca di annodare certi fili rossi che raccoglie seguendo l’istinto. Forse no, segue dei ragionamenti suoi: li cerca dentro ai testi delle canzoni senza preoccuparsi se queste sono cantate bene o stonate. Ne sceglie tre ogni volta, una playlist veloce di tre pallottole al cuore della storia di questi anni, quindi anche della mia storia. Mette insieme roba vecchia e musiche recenti, gente con sorrisi da copertina e brutte facce adatte a foto segnaletiche, nomi noti e gruppi mai sentiti, cercando di dare un senso a quello che dentro a quelle canzoni si canta. Una maniera piuttosto particolare di raccontare il presente. Quelli dell’ASFAI (www.asfai.info) gli propongono di raccogliere gli articoli in un libretto, e mi coinvolgono per realizzarlo. Suggerisco a En-Ri.ot di organizzare una compilation al contrario, di contattare cioè i vari gruppi e musicisti di cui si è occupato e chiedergli in prestito la canzone di cui ha analizzato il testo. Ne viene fuori “Note bandite”, uscito a ottobre e già finito (ristampatelo, dai). Uno di quei casi fortunati e felici dove ci si aggrega per una condivisione di ragionamenti invece che di gusti musicali comuni.

Fanno tredici, una per ciascun mese patafisico. Ma ce ne sono molte altre: la fanzine Germogli ad esempio (burningbungalow@gmail.com). Grazie per avermi ancora fatto posto qui. Grazie tantissime.

Intervista ai curatori di Vennero in sella due gendarmi

Vennero in sella due gendarmi è una raccolta di scritti e musica curata per aiutare il fondo di difesa Genova Antifascista. I curatori sono Marco Pandin e Marco Sommariva, così ho pensato di sentire da loro come sta andando la situazione per supportare il fondo di difesa genovese.

Come sta proseguendo l’iniziativa?

Marco Sommariva: Alla grande: da sabato scorso 6 febbraio la prima tiratura è da considerarsi esaurita, e questo significa che è andata via in sole tre settimane. A giorni partirà la ristampa.
Marco Pandin: Vero, questa velocità di diffusione mi sorprende e mi rende felice. Ma la soddisfazione più grande è stata il rendersi conto della grande voglia di partecipare, di essere e di esserci, del desiderio di contribuire come possibile. Marco ed io abbiamo costruito questa rete di contatti senza avere un disegno o una strategia, sono bastati cinque-dieci minuti al telefono quindi neanche il tempo tecnico per metterci d’accordo. Abbiamo chiesto, fatto girare la voce. E non ne farei neanche una questione di comune orientamento politico, tanto siamo diversi – tutti. Penso che sia stato compreso a fondo il nostro spirito più autentico, la nostra voglia di fare qualcosa. Ho già curato altre raccolte nel passato, penso che sia la prima volta che nessuno tra i partecipanti mi abbia chiesto una qualche lista delle adesioni già pervenute – e questo trovo la dica lunga sull’atteggiamento di come ciascuno ha messo a disposizione la propria creatività senza chiedere niente in cambio.

Qual’è la tiratura di Vennero due gendarmi … ?

M. S.: 600 copie la prima tiratura, e di altre 600 sarà la seconda.

Avete agito su espressioni artistiche diverse: il disegno, la musica e la scrittura.

M. S.: Ogni forma d’arte può veicolare il messaggio antifascista, così come ognuno di noi può combattere quotidianamente ogni forma di fascismo, e se per caso avessimo difficoltà a identificare questo cancro che a volte s’insedia anche in famiglia, forse può aiutare ricordare cosa scrisse Pasolini nel ’74: “Se la parola fascismo significa la prepotenza del potere, la “società dei consumi” ha bene realizzato il fascismo”. E aggiungo che quello di combattere personalmente il fascismo, ogni giorno e in ogni luogo, è uno sforzo che dobbiamo fare perché, come scriveva Orwell, “Se sostenete che il fascismo è soltanto un’aberrazione che in breve tempo si esaurirà da sola, vi cullate in un sogno dal quale vi desterete nel momento in cui qualcuno vi darà una manganellata sulla testa”.
M. P.: Quando avevo vent’anni ho letto un volantino dei Crass dove c’era scritto press’a poco “La nostra arma più potente è la creatività”. Ero un fanzinaro, del genere non so cosa fare e come fare, ma lo faccio comunque. Col mio giro di amici di allora amavamo ascoltare musica, suonare, disegnare, scrivere, sognare – tutti pretesti per incontrare, conoscere, imparare, scambiare, confrontarsi, crescere. Ecco, quella frase mi ha colpito, ispirato ed accompagnato, ed ho cercato di farla mia anche nelle mie storie di tutti i giorni. Se ne ho ricavato un insegnamento? Direi che pensarla così è stato fondamentale per riuscire a sopravvivere nel posto di lavoro, per impostare la vita in casa e l’educazione dei figli. Per costruire una mentalità che sia condivisione, oltre che perenne capacità di meravigliarsi.

Come è stata accolta dai genovesi la raccolta per il fondo di difesa Genova Antifascista?

M. S.: Benissimo. Tutte le realtà antifasciste genovesi hanno acquistato numerose copie e, ne avessimo ancora a disposizione, ne acquisterebbero altre: abbiamo consegnato pacchi contenenti sino a 40 confezioni. Grande attenzione ci è stata dedicata anche dalle altre province liguri: Savona, Imperia e La Spezia. Ma l’iniziativa sta andando forte anche fuori dai confini regionali: tutta l’Italia s’è mossa, dal Friuli alla Calabria, dalla Sicilia al Piemonte, passando per la Sardegna.

Alla luce di quanto mi avete raccontato, come sarà il futuro?

M. S.: Dopo l’evoluzione della repressione che è passata dal “solo” picchiare coi manganelli al picchiare coi manganelli e sulle tasche degli antifascisti, ho l’impressione che il Sistema dovrà ulteriormente cambiare tattica per provare a mettere in ginocchio l’antifascismo, visto che – militanti e non – non ci hanno pensato su due volte a metter mano al portafogli per riempire la cassa che occorrerà a coprire le spese legali dei 56 denunciati per gli scontri di Piazza Corvetto, del maggio 2019. Per noi antifascisti il futuro è roseo, e non può essere diversamente dopo i “muscoli intellettuali” mostrati con questo doppio cd; lo vedo nero, invece, per chi sta dall’altra parte. Siamo tanti, uniti, preparati, e combattiamo su più livelli: noi abbiamo un futuro, questo è certo.
M. P.: Sorrido nel sentire Marco che parla così: parla come un disco di Franti, io tenderei a essere più introspettivo e pensoso come un disco dei Kina. Entrambi facevano però fiorire in cuore delle belle speranze, e non c’era bisogno di trucchi e travestimenti o slogan urlati dal palco. Miravano al cuore della gente, e hanno fatto centro. Quando ero ragazzo era stato creato questo mito del “non futuro” – coi Sex Pistols lo cantava buona parte del punk, e dopo gli anni di piombo e nel bel mezzo degli anni di televisione obbligatoria io lo trovavo opprimente e insostenibile. Il futuro c’era eccome, solo che bisognava farsi il culo per costruirlo. Una cosa che ho imparato in questi anni è che il “non futuro” era una trovata pubblicitaria per derubarci degli spiccioli e della speranza. Forse ho fatto bene allora ad ascoltare il cuore.

Si può richiedere la raccolta in 2CD, con offerta libera e responsabile a: Genova Antifascista

Si ascoltare l’intervista a Marco Sommariva per Genova Antifascista a cura di Gianluca Polverari su: Radio Città Aperta Podcast.

Contributi scritti di:

Erri de Luca, Giansandro Merli, Franco Arminio, Maurizio Maggiani, Fabio Geda, Paolo Cognetti, Haidi Gaggio Giuliani, Max Mauro, Alessandro Spinazzi, Carmine Mangone, Stefano Giaccone, Marco Sommariva

Contributi grafici di:

Zerocalcare, Gaia Cocchi, Fabio Santin, Chiara Sestili, Elia Fortunato, Federico Zenoni, Stefano Sommariva, Shinbross [Giulio Sciaccaluga], NicoComix

Le canzoni del doppio CD “Vennero in sella due gendarmi, vennero in sella con le armi”:
  1. Giorgio Canali – Genova per noi
  2. Andrea Sigona – La ballata dell’innocenza
  3. Yo Yo Mundi con Marco Rovelli – Anarcobaleno
  4. Ascanio Celestini – La camminata del moribondo
  5. Mars on Pluto – La violenza
  6. L’Estorio Drolo – La chansoun de Nadu
  7. Alessio Lega – Matteotti
  8. Banda POPolare dell’Emilia Rossa – Non mi scorderò di te
  9. Modena City Ramblers – La legge giusta
  10. Nuovo canzoniere Partigiano – Festa d’aprile
  11. Bandabardò – Tre passi avanti
  12. Lo ZOO di Berlino con Franco Fabbri – Pontelandolfo
  13. Gang – Marenostro
  14. Luca Bassanese – Il bombarolo
  15. Loris Vescovo – Sigur
  16. Simona Boo – Estate ’89 (Una storia dal mare)
  17. Paolo Capodacqua – I nidi degli uccelli
  18. Od Fulmine con Davide Toffolo – La verità
  19. Dany Franchi – Wanna know
  20. Franti – Quando me ne andrò
  21. Massimo Zamboni – Fine
  22. Umberto Maria Giardini – Molteplici e riflessi
  23. Subsonica – Preso blu
  24. Kina – Sabbie mobili
  25. Wu Ming Contigent – Peter Norman
  26. Daniele Sepe e i Fratelli della Costa – Cazzimmao (Pesciolini & pesci a brodo)
  27. Caparezza – L’uomo che premette
  28. Luca ‘O Zulù Persico – Bella ciao
  29. Mauràs – Majorana
  30. Signor K feat. ‘O Zulù – Corre forte la locomotiva
  31. Assalti Frontali – Roma meticcia
  32. Putan Club – Sens la mort
  33. Cesare Basile – Nesima rodeo
  34. Lalli e Stefano Risso – Le colline spezzate

Si può richiedere la raccolta in 2CD, con offerta libera e responsabile a: Genova Antifascista

Vennero in sella due gendarmi – 2CD per il fondo di difesa di Genova Antifascista

A Genova, il 23 maggio 2019, più di un migliaio di cittadini, si sono incontrati a Piazza Corvetto per esprimere la propria contrarietà ad un comizio di casa pound. Purtroppo ci fu una reazione spropositata delle forze dell’ordine verso il giornalista Stefano Origone di Repubblica e i partecipanti antifascisti. Il primo fu vittima e testimone delle violenze. Successivamente, agli altri sono arrivate 56 denunce e circa 60.000 euro di multe da pagare e quindi queste persone si dovranno difendere in tribunale dall’accusa di antifascismo. Una situazione, posso dire, paradossale.

Vennero in sella due gendarmi Copertina

Per dare una mano e per non far sentire soli, è nato un fondo di difesa e per sostenerlo Marco Pandin e Marco Sommariva hanno avuto l’idea di chiedere ad amici artisti un supporto. Musicisti, disegnatori, pittori, scrittori e performer hanno partecipato con una loro opera. Così è nata la raccolta in 2CD “Vennero in sella due gendarmi, vennero in sella con le armi“. Creata con il semplice passaparola, oltrepassando le distanze e gli stili espressivi dei partecipanti, ma con la volontà di unire la propria voce “in un coro di vibrante protesta“. I due Marco sono rimasti felici e anche un pochetto sorpresi da tutta questa solidarietà, per sostenere il fondo di difesa.

Tutti gli artisti, chi più o meno noto, hanno partecipato in maniera volontaria e del tutto gratuita. La raccolta è interessante e mi piace molto perché variegata, ma proprio dalla diversità di voci, suoni, disegni e parole, si respira un ossigeno vitale, che invita a non restare indifferenti. Un altro motivo per ascoltare “Vennero in sella due gendarmi, vennero in sella con le armi“, è che fra le canzoni vi sono parecchi inediti.
La copertina è una elaborazione grafica autorizzata di Zerocalcare e rappresenta un estintore, di tragica memoria: il G8 di Genova del 20 luglio del 2001.

Si può richiedere la raccolta in 2CD, con offerta libera e responsabile a: Marco Sommariva

Si ascoltare l’intervista a Marco Sommariva per Genova Antifascista a cura di Gianluca Polverari su: Radio Città Aperta Podcast.

Contributi scritti di:

Erri de Luca, Giansandro Merli, Franco Arminio, Maurizio Maggiani, Fabio Geda, Paolo Cognetti, Haidi Gaggio Giuliani, Max Mauro, Alessandro Spinazzi, Carmine Mangone, Stefano Giaccone, Marco Sommariva

Contributi grafici di:

Zerocalcare, Gaia Cocchi, Fabio Santin, Chiara Sestili, Elia Fortunato, Federico Zenoni, Stefano Sommariva, Shinbross [Giulio Sciaccaluga], NicoComix

Le canzoni del doppio CD “Vennero in sella due gendarmi, vennero in sella con le armi”:
  1. Giorgio Canali – Genova per noi
  2. Andrea Sigona – La ballata dell’innocenza
  3. Yo Yo Mundi con Marco Rovelli – Anarcobaleno
  4. Ascanio Celestini – La camminata del moribondo
  5. Mars on Pluto – La violenza
  6. L’Estorio Drolo – La chansoun de Nadu
  7. Alessio Lega – Matteotti
  8. Banda POPolare dell’Emilia Rossa – Non mi scorderò di te
  9. Modena City Ramblers – La legge giusta
  10. Nuovo canzoniere Partigiano – Festa d’aprile
  11. Bandabardò – Tre passi avanti
  12. Lo ZOO di Berlino con Franco Fabbri – Pontelandolfo
  13. Gang – Marenostro
  14. Luca Bassanese – Il bombarolo
  15. Loris Vescovo – Sigur
  16. Simona Boo – Estate ’89 (Una storia dal mare)
  17. Paolo Capodacqua – I nidi degli uccelli
  18. Od Fulmine con Davide Toffolo – La verità
  19. Dany Franchi – Wanna know
  20. Franti – Quando me ne andrò
  21. Massimo Zamboni – Fine
  22. Umberto Maria Giardini – Molteplici e riflessi
  23. Subsonica – Preso blu
  24. Kina – Sabbie mobili
  25. Wu Ming Contigent – Peter Norman
  26. Daniele Sepe e i Fratelli della Costa – Cazzimmao (Pesciolini & pesci a brodo)
  27. Caparezza – L’uomo che premette
  28. Luca ‘O Zulù Persico – Bella ciao
  29. Mauràs – Majorana
  30. Signor K feat. ‘O Zulù – Corre forte la locomotiva
  31. Assalti Frontali – Roma meticcia
  32. Putan Club – Sens la mort
  33. Cesare Basile – Nesima rodeo
  34. Lalli e Stefano Risso – Le colline spezzate

Si può richiedere la raccolta in 2CD, con offerta libera e responsabile a: Marco Sommariva

Penny Rimbaud: L’ultimo degli hippy – nuova edizione 2020

Penny Rimbaud: L’ultimo degli hippy libro copertina

E’ appena stata pubblicata una nuova edizione de “L’ultimo degli hippy” di Penny Rimbaud. L’autore inglese è anche stato membro fondatore del collettivo anarcopunk dei Crass: nei loro album si cantava di diritti sociali, di antimilitarismo e di pacifismo. La non etichetta stella*nera di Marco Pandin ristampa una nuova edizione ampliata e con una nuova prefazione dell’autore.

 

Scritto da Penny Rimbaud che dei Crass è stato fra i fondatori e la testa pensante dietro i tamburi della batteria, “L’ultimo degli hippy” racconta la storia del movimento pacifista britannico dalle radici che affondano nella cultura beat dei tardi anni ‘50, passando attraverso la stagione hippy per giungere alla “punk explosion” londinese del 1977. A questa si intreccia la storia di Wally Hope, un anarco/mistico visionario la cui morte prematura, risultato della permanenza forzata in un ospedale psichiatrico e del trattamento sanitario obbligatorio cui venne sottoposto, diviene il simbolo della trasformazione della filosofia hippy del “pace e amore” nella rabbia grezza del punk.

Marco Pandin

Libro 48 pagine – non in vendita – offerta libera e responsabile. Traduzione in italiano, a cura di Giuseppe Aiello e Marco Pandin. Originariamente il testo di Penny Rimbaud era compreso nella raccolta A series of shock slogans and mindless token tantrums” allegata al doppio album dei CrassChrist – the album” (1982) e poi pubblicato nel 1983 da Exitstencil Press.

Si può richiedere con offerta libera e responsabile a: Candilita, stella*nera, Dethector, Edizioni Bruno Alpini e Silentes

Si ascoltare l’intervista a Marco Pandin per stella * nera a cura di Gianluca Polverari su: Radio Città Aperta Podcast.

Il progetto sonoro F/ear this! intervista a Marco Pandin

F/ear this! A Collection Of Unheard Music, Unseen Images and Unwritten Words Inspired By Fear - yellow cover - copertina gialla

Ve li ricordate gli anni’80? Verso il 1986 e il 1987? In quel periodo c’era ancora lo scontro fra le due super potenze: gli U.S.A. e l’U.R.S.S. con lo spettro che accompagnava la corsa agli armamenti atomici. In Italia esisteva un modello di società meno libera: guidavano la democrazia cristiana e il partito socialista, gli anni di piombo erano appena trascorsi. Poco dopo accadde l’incidente nucleare a Chernobyl: “… un guasto terribile ad una centrale nucleare che distava da noi neanche un paio di giorni di viaggio: sembrava che i nostri incubi prendessero una qualche forma fisica…“. Un gruppo di giovani, fra Padova e Venezia, ebbe l’idea di mettere insieme, con il supporto e la collaborazione di amici musicisti, grafici e poeti sparsi un po’ ovunque, dei contributi collegati o collegabili ad un tema comune: la “paura”. Paura era un sentimento comune: “… facciamo qualcosa allora, cerchiamo di protestare, di alzare il volume. Cerchiamo di diffondere, di mobilitare, di passare la parola e condividere il senso di allarme. Eravamo un’accozzaglia di fanzinari e musicisti, ci siamo detti facciamo un disco …”. Marco Pandin, uno degli ideatori, ricorda così la scintilla che accese il doppio album del 1987 ” F/ear this! A Collection Of Unheard Music, Unseen Images and Unwritten Words Inspired By Fear “.

Quest’anno, finalmente, esce una riedizione in doppio CD e con libro, arricchita di brani e contenuti grafici in più. Musicalmente un doppio album molto interessante nella sua eterogeneità di stili musicali, drammaticamente attuale. I musicisti interpretano un sentimento così umano, raccontandolo in vari modi, tutti molto significativi e personali. Per me è stata una buona occasione per farmi raccontare da Marco la genesi di “F/ear this!” e le situazioni che lo crearono.

Domanda: Marco, per prima cosa, come stai ?

Risposta: Benone, per quanto possibile. Per fortuna mi piace leggere ed ascoltare musica, così le giornate in casa passano abbastanza velocemente. Ho dato una sistemata alla libreria e in mezzo al casino ho trovato dischi che neanche ricordavo di avere. Certo mi manca poter girare, ho promesso a un sacco di amici e compagni da Aosta a Bergamo a Perugia a Catania che andrò a trovarli appena finirà la peste.

D: Sei stato l’ideatore fra il 1986 e il 1987 del progetto grafico sonoro “F/Ear this!“, sbaglio o non nasce per caso?

R: La cosa da precisare subito è che non ero da solo: “F/Ear this!” è stato un lavoro collettivo, io ho soltanto messo insieme i pezzi.

D: Marco, il tuo recente passato era fatto di esperienze editoriali e discografiche indipendenti, “F/Ear this!” è un naturale proseguimento. Chi ti ha aiutato?

R: Tramite la fanzine Rockgarage col tempo avevamo messo in piedi un po’ di giro e preso contatti con altri ragazzi e gruppi attivi in città anche lontane da Venezia – ad esempio i Franti a Torino, i Diaframma a Firenze, gli Spleen Fix a Salerno. Siamo stati invitati dall’Arci ai primi Meeting delle etichette discografiche indipendenti a Firenze, dove s’è potuta incontrare parecchia gente anche di paesi stranieri, lo stand di Rockgarage era aperto e condiviso e attorno c’era sempre folla e casino. L’idea di fondo era sostenersi a vicenda, e questi intenti sono stati grossomodo mantenuti anche dopo la chiusura della fanzine. In questo caso specifico abbiamo provato a immaginare un progetto costruito attorno alla comune paura che si viveva dopo l’incidente di Chernobyl, paura che si veniva ad aggiungere all’inquinamento, all’AIDS, all’oppressione politica, agli euromissili. Ognuno ha contribuito come ha potuto e saputo fare. Abbiamo costituito un gruppo informale di individui e collettivi, fanzinari e musicisti, tutti pecore nere e tutti differenti come potevamo esserlo io e Giacomo Spazio, Franti e Detonazione, i Plasticost e la Trax. Al tempo era pratica diffusa raccogliere dei fondi tramite la musica, così abbiamo pensato di destinare il ricavato di “F/Ear this!” ad A/Rivista Anarchica perché da sempre in redazione avevano dimostrato nei nostri confronti – intendo noialtri fanzinari e varie bestie disperse – una certa simpatia ed apertura mentale senza trattarci come un fenomeno da baraccone.

D: Invece sono curioso di come siete riusciti a contattare tutti gli artisti, fra l’altro non solo italiani, visto che non c’era la posta elettronica o la rete Internet. Li conoscevi tutti?

R: Prima di internet c’era la posta tradizionale, c’erano il telefono e i fax, ci si incontrava di persona per strada, alle manifestazioni, ai raduni, ai concerti. Abbiamo fatto così – per passaparola. Non è stata affatto una cosa organizzata e pianificata, eppure direi che ha funzionato.

D: “F/Ear this!” non è solo una raccolta di canzoni e musiche ma vi sono opere grafiche e poesie, perché?

R: La musica dopo il Sessantotto è stata un collante sociale formidabile, noi siamo venuti dopo ma direi che è stato quello il nostro rumore di fondo – la controcultura hippy, il pacifismo, i poeti beat, le manifestazioni di protesta, Rock in Opposition, le canzoni di lotta. Nel mettere in piedi e soprattutto nel mantenere in piedi Rockgarage abbiamo avuto la fortuna di una mentalità aperta, nel senso che davvero non ce ne fregava assolutamente niente se uno suonava punk oppure dark oppure blues. A noi bastava suonare, bastava tirare fuori le parole e le canzoni da dentro senza doverci preoccupare della forma. Abbiamo organizzato dischi e concerti collettivi dove coesistevano sul vinile e sul palco generi espressivi distanti, Death in Venice e Funkwagen, Pitura Freska e Degada Saf per dire, e non è mai stato un problema per nessuno. Da ogni serata uscivamo tutti felici ed arricchiti, si montava il palco e si puliva la sala insieme, alla fine avanzava sempre abbastanza per una pizza e una birra insieme. Altrove non funzionava così, per dire al Virus di Milano suonavano solo gruppi punk perché in quell’aggregarsi milanese c’erano delle motivazioni differenti dalle nostre. Non avevamo un’identità da difendere, piuttosto ci si era accorti che dovevamo stare insieme per difenderci – in provincia la vita funzionava diversamente che nelle città grosse. Per tutto questo dentro a “F/Ear this!” c’è stato posto per chiunque avesse disegni da mostrare, parole da far leggere e canzoni o rumore da far ascoltare. Pensa che non abbiamo neanche scritto la lista dei partecipanti fuori in copertina.

F/ear this! A Collection Of Unheard Music, Unseen Images and Unwritten Words Inspired By Fear

D: Il gioco di parole contenuto nel titolo è tutt’ora d’impatto, come venne fuori?

R: Il titolo è frutto del genio di Vittore Baroni, che si è occupato anche della raccolta dei contributi grafici. Senti questo, e abbi paura di questo: facevamo sul serio senz’altro, ma ci piaceva divertirci.

D: Musicalmente vi sono gruppi di generi e stili differenti, eppure ascoltando “F/Ear this!” ho avuto l’impressione che tutto sia collegato.

R: C’è un sottofondo, sì. Non un filo rosso fisico e distinguibile, piuttosto un qualche cosa di rarefatto, come un’affinità di percezione che serpeggia fra le tracce. E’ stata la mia esperienza di fanzinaro, e ancora sono dell’idea che le varie etichette appiccicate sopra ai generi espressivi musicali siano un espediente per creare divisioni insormontabili fra ragazzi che invece naturalmente tenderebbero a cooperare.

D: Quale fu la tiratura dell’opera?

R: Abbiamo stampato 1200 copie su vinile e 500 cassette. Ad ogni doppio album era allegato un libretto, per le cassette ci si è arrangiati con fotocopie fatte di sfroso al lavoro perché non c’erano abbastanza soldi per pagare altri libretti alla tipografia.

D: Posso dire che la “paura” sembra non passare mai di moda…

R: Ogni tanto rifletto e mi viene da dire che abbiamo ristampato “F/Ear this!” nel momento più sbagliato. Però poi mi passa, e penso che sembra l’abbiamo fatto apposta.

D: Oggi, nel 2020 decidi di ristampare in un nuovo formato “F/Ear this!”. Noto che in questa edizione ci sono delle canzoni che non c’erano nel 1987.

R: Come dicevo prima allora si è lavorato di passaparola e i contatti con i partecipanti sono stati creati e mantenuti via posta tradizionale, adottando cioè una velocità di comunicazione che adesso viene considerata come inadeguata. Non ci si aspettava certo una risposta così voluminosa e complessa: all’inizio ci eravamo orientati su un album singolo, ma arrivavano sempre più contributi e si è arrivati ad un album doppio. Il problema è stato che a un certo punto avevamo quasi messo insieme le quattro facciate ma continuava ad arrivare roba. Parecchi nastri sono arrivati quando “F/Ear this!” era già stato pubblicato.

D: I dischi ora non sono facili da trovare, fra l’altro nei mercatini e in rete non costano poco.

R: A me sinceramente queste speculazioni non piacciono, così come non riesco proprio a comprendere come si possano spendere cifre assurde per un disco quando c’è tanta gente che fa fatica ad arrivare a fine mese. Sono un appassionato di musica, ogni tanto mi piace gironzolare per i negozi di vinile usato ma non arrivo a capire come si possa essere disposti a pagare che so quaranta-cinquanta euro per un vecchio disco… O cifre addirittura maggiori. Possedere, possedere, possedere: penso che si metta in moto dentro in testa un qualche meccanismo perverso, più che collezionisti mi sembrano degli accumulatori seriali, gente per cui la passione per la musica a un certo punto è diventata una nevrosi. Sono dell’idea che la musica vada distribuita e condivisa, non congelata in uno scaffale.

D: Oggi come avete pensato alla distribuzione? Anche nei canali della “musica liquida“?

R: Come ho già avuto modo di dire, stella*nera non è un’etichetta discografica. Le cose che facciamo non sono poste in vendita, quindi non avendo niente da vendere non abbiamo bisogno di affidarci ad un distributore commerciale. Inoltre, le nostre cose le offriamo in cambio di un’offerta libera e responsabile e ogni volta puntualizzo che offerta-libera-e-responsabile è diverso da un’elemosina. Anche grazie a spazi come questo riceviamo regolarmente parecchie richieste per lettera, e-mail, telefono e mandiamo pacchetti. Ogni tanto partecipiamo a qualche bookfair anarchico, oppure ci invitano a presentare i nostri lavori così la gente ha la possibilità di incontrarci. Delle copie delle cose che facciamo girano comunque anche in alcuni negozi di dischi e librerie, sono posti gestiti da persone amiche che nel tempo ci hanno sostenuto.

Copertina 2020 F/ear this! A Collection Of Unheard Music, Unseen Images and Unwritten Words Inspired By Fear

D: Mi piacerebbe conoscere qualche aneddoto sul materiale o sui contatti.

R: Grande parte del lavoro di digitalizzazione delle registrazioni è stata fatta da Marco Giaccaria, che ha uno studio casalingo ben attrezzato. Ero con lui quando abbiamo letto e registrato il master analogico originale, ad un primo esame le bobine si erano conservate abbastanza bene nonostante gli anni passati in cantina ed i ripetuti traslochi. Altre però erano purtroppo deteriorate e inutilizzabili, anzi alcune delle registrazioni che siamo riusciti a salvare sono la documentazione in tempo reale dell’ultimo scorrere del nastro sulla testina prima di sbriciolarsi. Le difficoltà di lettura hanno caratterizzato parecchio il contributo senza nome di Massimo Giacon e Mimì Colucci, e secondo me hanno aggiunto una certa drammaticità al pezzo dei 2+2=5, che non abbiamo poi tentato di ricostruire da vinile e abbiamo lasciato così. Purtroppo un bel po’ di roba, a volte neanche identificabile perché mancavano le indicazioni sulle scatole, è andata irrimediabilmente persa. L’idea di ristampare “F/Ear this!” è partita dal ritrovamento fortuito in garage di una cartellina finita dietro a uno scaffale, dentro c’erano le tavole originali di Vittore Baroni e il progetto di Franco Raffin di Rockgarage per la copertina – allora era stata scartata perché la vedevamo “un po’ troppo Joy Division”, si può essere più stupidi di così.

Collage di Annie Anxiety Crass F/ear this!

D: Per quanto riguarda la parte grafica mi piacciono molto i collage della poetessa Annie Anxiety del collettivo anarcopunk inglese dei Crass.

R: Avevo conosciuto Annie assolutamente per caso, pensa che neanche sapevo fosse lei. Ero stato con Gino Collelli degli Wops a Dial House per mostrare ai Crass le cose che facevamo e soprattutto per discutere del libro di traduzioni dei loro testi che poi ho pubblicato. Dopo una giornata passata a parlare principalmente con Phil, Penny e Gee, Gino ed io stavamo ritornando a piedi alla fermata della metropolitana quando a un certo punto accosta una macchina che ci offre un passaggio. Ho riconosciuto lei e il suo compagno (che era Pete Wright, bassista dei Crass) l’anno successivo durante un concerto a Nottingham. Ad Annie sarebbe piaciuto partecipare al convegno anarchico di Venezia, così ho organizzato una serie di date in giro per l’Italia press’a poco nello stesso periodo del convegno. In quei giorni abbiamo approfondito la nostra amicizia, così prima di ritornare a casa Annie mi ha regalato parecchi disegni suoi, collage, acquerelli, poesie scritte a mano e altre a macchina – al tempo avevo tradotto e raccolto un po’ di cose sue in un libretto che ho allegato ad una cassetta. Vittore ne ha utilizzato una parte per illustrare “F/Ear this!”.

D: La nuova edizione 2020 è sempre il frutto di un lavoro collettivo, vero?

Da qualche tempo stella*nera non è più un fatto personale, mi danno una mano alcuni compagni, gente che mi è sempre stata vicina in questi anni. Tra questi Dethector, Marco il pirata genovese, Miguel il montanaro, Franz nella zona rossa bergamasca. Abbiamo età e storie diverse, per questa ragione le nostre discussioni attorno ai progetti tendono ad incendiarsi. E’ bellissimo. Mi piace lavorare da solo, e l’ho fatto per tanto tempo, ma così in compagnia c’è senz’altro più gusto. Di recente abbiamo collaborato con Stefano Gentile di Silentes: questo per me è stato un avvicinarsi fortunato e felice, ci conosciamo dai tempi di Rockgarage – lui e suo fratello erano degli Hyxteria, uno dei primissimi gruppi punk veneti, e mandavano avanti la fanzine Nashville Skyline.

Per ricevere “F/ear this! A Collection Of Unheard Music, Unseen Images and Unwritten Words Inspired By Fear” potete rivolgervi a:

stella*nera oppure a Dethector oppure a Silentes

2+2=5 – Guang Zhou
Two Tone – Sometimes Timid / My Womb
Jane Dolman e Pete Wright – Fishes In Water
Giorgio Cantoni – Un anno nelle favelas

Per ricevere “F/ear this! A Collection Of Unheard Music, Unseen Images and Unwritten Words Inspired By Fear” potete rivolgervi a:

Tutto andrà bene 13

La malattia Covid-19 è arrivata in maniera silenziosa e strisciante qui da noi. All’inizio sembrava lontana, là in Cina ed invece eccola fra di noi.
Ci fa provare insicurezza e paura: credo che sia innegabile. Fatalità due giorni fa una gradita sorpresa: il postino (grazie per il suo lavoro) mi ha consegnato un pacchetto, con il doppio album di “F/ear this! A Collection Of Unheard Music, Unseen Images and Unwritten Words Inspired By Fear“. Si tratta della nuova edizione in CD del progetto grafico – sonoro curato da Marco Pandin nel 1987, oramai esaurito e quasi introvabile, se non a delle cifre esagerate. Si tratta di una raccolta di brani musicali, disegni e poesie espressamente scritti e registrati per “F/ear this!“.
Ho pensato che fosse interessante scriverne, perché questo doppio CD tratta del sentimento della paura e dell’insicurezza che poteva suscitare alle persone il pericolo nucleare negli anni’80: positivo il modo in cui gli artisti che parteciparono “F/ear this!” reinterpretarono la paura, magari proprio per esorcizzarla ed allontanarla da sé. Anche ora in questi giorni questo progetto artistico musicale mi sembra attuale.

Oltre ai due album vi è allegato un libro con opera grafiche, collage e poesie, seguito dal mailartist Vittore Baroni di TRAX. Gli stili musicali sono molteplici: il jazz più estremo, la new wave anni ’80, il punk, la musica elettronica e fino ad arrivare alle sperimentazioni ambient o altre contaminazioni sonore, melodiche e bizzarre. La raccolta, già dal titolo, ha come tema “la paura“: gli artisti hanno cercato di parlarne, di raccontarla musicalmente o graficamente, come se fosse un veicolo per allontanarla da sé e tenere a freno le proprie ansie. “F/ear this!” è nata nel 1986 ed è stata pubblicata all’inizio del 1987. Se ricordate fu un periodo in cui vi era lo schieramento frontale fra gli U.S.A. e l’U.R.S.S. ed era diffusa la paura (appunto) per la catastrofe atomica. Nello stesso anno era appena successo l’incidente nucleare di Chernobyl. Marco Pandin ricorda: “un guasto terribile … che distava da noi neanche un paio di giorni di viaggio: sembrava che i nostri incubi prendessero una qualche forma fisica, si riusciva a vederne chiaramente i contorni, a toccarli, ad inghiottirli, a respirarli“. Il pregio di “F/ear this!“, ora ci torna fra le mani, non sembra per nulla invecchiata, anzi resta così attuale e ricca di significati. La particolarità è l’assieme di stili musicali molto differenti fra loro, ma proprio queste differenze fanno di “F/ear this!” il suo valore più importante.

Per ricevere “F/ear this! A Collection Of Unheard Music, Unseen Images and Unwritten Words Inspired By Fear” potete rivolgervi a:

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Ho appena ricevuto un link con una bella e completa intervista a Marco Pandin, la trovate qui: Tregua Mai – Marco Pandin e il progetto F/Ear this!