Lettori da spiaggia: Va tutto bene John Sinclair

John Sinclair - Va tutto bene It's all good Stampa Alternativa editore

Un ricordo delle letture estive: Va tutto bene, di John Sinclair. Il libro edito da Stampa Alternativa, raccoglie poesie ed articoli dell’attivista civile nonché scrittore. Una raccolta di saggi libera da preconcetti sulla società americana ed arricchita di scritti sulla musica jazz, blues e rock.

La canzone di John Lennon e Yoko Ono dedicata a John Sinclair, per sensibilizzare l’opinione pubblica ed ottenere la scarcerazione.

John Sinclair è stato il manager del gruppo MC5 di Chicago, il gruppo rock univa tematiche politiche suonate potentemente.

Cose belle del 2023 di Marco Pandin

Anche quest’anno Marco Pandin mi ha scritto le 13 cose belle del 2023. E’ sempre un bel regalo questo appuntamento con Marco, giunto al terzo anno. Buona lettura, visione ed ascolto! Le cose belle degli anni precedenti sono qui: 2022 e 2021.

Tredici cose belle del 2023 partendo da zero, in ordine di accadimento. Perché tredici è indipendenza e creatività. Tredici è la rivolta di Lucifero.

0- L’album di debutto di Djim Radé (nome vero Djimradé Kamndoh), cantante e chitarrista del Ciad, uscito a gennaio. Dire che è bellissimo è praticamente come dire niente, sembra quasi di fargli un torto. Non so se nelle nostre lingue euroccidentali ci siano parole adatte a descrivere forme di vita sonora simili, così luminose pulsanti radianti vibranti da sembrare provenienti da un altro universo. Le canzoni non procedono lineari ma imprevedibili come salti quantici, ciascuna con l’anima in spalle: un carico pesante di felicità, oppure è malinconia, o un dolore enorme. Chissà che nessuno faccia sapere di questo disco a Brian Eno, sennò l’anno prossimo avremo uno Djim Radé in versione plastificata e disinnescata ad aprire per i Coldplay o per gli U2 – e per noi sarà come perdere un bosco, o un ghiacciaio.

1- “Trieste è bella di notte”, il docufilm di Andrea Segre, Matteo Calore e Stefano Collizzoli uscito verso fine gennaio e realizzato con il sostegno, tra gli altri, di Banca Etica, Amnesty International e Medici senza Frontiere [qui https://www.youtube.com/watch?v=bysxnO4XF9g il trailer]. Sembra una storia artificiale, e un po’ lo speri. E invece no. Mentre guardi ti si muove qualcosa dentro in testa e ti ritrovi a pensare: non può essere in Italia, queste cose da noi non succedono. E invece sì. Il ministero dell’interno definisce queste operazioni “riammissioni informali” e le ha introdotte nel maggio 2020. A gennaio 2021 il tribunale di Roma le ha dichiarate illegali e sono state sospese fino al 28 novembre 2022, quando il ministro Matteo Piantedosi le ha riattivate. La storia è grosso modo: alcuni migranti afghani e pakistani della rotta balcanica riescono ad attraversare la frontiera italiana ma a Trieste vengono intercettati e bloccati dalla polizia e subito respinti, senza che gli sia data alcuna possibilità di fare richiesta di asilo. I nostri li spintonano indietro in Slovenia, dove i colleghi li prendono in consegna e li accompagnano premurosamente in Croazia, lasciandoli tra le mani di sbirri che li derubano di tutto soldi vestiti telefonino e dignità, li pestano facendo particolare attenzione a rovinargli le gambe, poi li mollano di notte da qualche parte in Bosnia dietro ai reticolati. Qualcosa da mangiare se hanno fortuna la raccattano stando attenti alle mine seminate negli orti abbandonati, sennò cazzi loro – parlano tutt’altre lingue e fanno fatica a spiegarsi ma tanto non c’è nessuno che li ascolti. Con la Carta dei diritti umani i governanti – i nostri, i loro – ci si puliscono il culo.

2- Il libro “I gabbiani vengono tutti da Brooklyn” scritto da Ettore Castagna, uscito ad aprile. L’anarchico Giuseppe Zangara, emigrato in America da un piccolo paese della Calabria, nel febbraio 1933 si procurò una rivoltella e sparò cinque colpi contro Franklin Delano Roosevelt, simbolo del capitalismo che crea la sofferenza del mondo – li meditava da una vita. Non riuscì a farlo fuori: il presidente se la cavò con un po’ di spavento, ci furono due feriti leggeri e due in maniera più seria tra il pubblico. A uno di questi durante le cure in ospedale si infettò la ferita e sopravvenne la morte per setticemia, così che Zangara si ritrovò colpevole di omicidio: dopo un processo veloce finì arrostito sulla sedia elettrica. Aveva trentatre anni. Strappato prestissimo dal banco di scuola e cresciuto a cinghiate e bastonate, era basso di statura, scuro di carnagione e minuto di corporatura. Giuseppe si incazzò col giudice perché al processo storpiava il suo nome, e durante l’esecuzione incitò il boia a fare in fretta. Alle guardie in carcere disse che avrebbe voluto una fotografia: Ettore Castagna gliene ha scattata una di duecentocinquanta pagine, ritratto in piedi di un ragazzo cresciuto troppo in fretta che, come Franti, non abbassa lo sguardo e ride quando il re muore.

3- Padova, primi di maggio. L’ultraottantenne Ferruccio Brugnaro che all’uscita del cinema intrattiene amabilmente quelle pochissime fortunate persone che hanno assistito alla proiezione di “The beat bomb”, il docufilm di Ferdinando Vicentini Orgnani incentrato su Lawrence Ferlinghetti e Jack Hirschman, entrambi scomparsi nel 2021 [qui https://www.youtube.com/watch?v=4MjqHsNXgoE il trailer]. Il film in sé è un’occasione sprecata: poteva essere una di quelle celebrazioni così gonfie di pittoreschi talenti attempati e di contestatori eccentrici adatta a essere trasmessa, rigorosamente a notte fonda e solo una volta, su quello che resta di Rai3. E invece è una veglia dolcissima ricamata dal suono di Paolo Fresu che di funebre e di lacrimoso non ha davvero niente e che anzi è gioia, è stupore e speranza, è incanto come può esserlo un ritaglio d’erba risparmiato dal cemento e dall’asfalto rimasto testardamente a sfidare il grigio stretto fra i palazzoni. Brugnaro dei visionari beat è stato collega amico e compagno, anche lui è un gigante irriducibile quando si parla di pace, di condivisione disarmo e solidarietà: la sua voce non vacilla, le sue braccia affettuose fanno il giro della Terra. Mio padre, io ancora un ragazzino, portava a casa ogni tanto dei volantini ciclostilati che l’operaio poeta distribuiva davanti ai cancelli delle fabbriche di Marghera. Ciascuno di quei pezzi di carta esortava a riflettere, a ragionare, ad amare: erano un invito a partecipare a una rivoluzione difficile, distribuito a gente che non sapeva leggere o leggeva a malapena.

4- Filippo Gambetta che suona suona suona in una piccola sala nella Saccisica, nordest profondo, fine maggio. Mi piace come costruisce in diretta la setlist, svolazzando tra un’alessandrina e un valzer popolare che appagano i più rigorosi (quelli che di ogni danza stanno molto attenti alla storia, ai significati e ai dettagli di ogni singolo passo e movimento) e una bourrée a due tempi che accende il cuore a qualche giovanissima coppia che quando può frequenta le mazurke clandestine del bal folk. E’ come se ad ogni concerto Filippo portasse con sé un sacco stracolmo di pepite d’oro puro provenienti da ovunque: le riversa sul palco disordinatamente, ci spolvera sopra un pizzico dolce d’Irlanda o ci infila in mezzo un ritornello di Renato Carosone e una strofa di Modugno, una scheggia di lambada, quando non addirittura una partitura azzardata di Wolmer Beltrami. Dai, Filippo, fanne un’altra. E un’altra ancora. Perché poi se la gente sa, e la gente lo sa che sai suonare, suonare ti tocca. Per tutta la vita.

5- Lo Speakers’ Corner Quartet, che dopo tanti anni di attività on the road pubblica l’album di debutto “Further out than the edge” a giugno. Se i Franti fossero un gruppo di oggi immagino suonerebbero press’a poco così, attenti com’erano a inventare per noi quelle loro canzoni così storte ricche di suggestioni future e tracce evidenti del passato. Quello che fa l’SCQ non è jazz anche se gli somiglia parecchio, come non è hip hop non è rock non è popular non è ambient non è folk ma è tutto questo insieme ed è anche di più: un mondo intero di impressioni, ritagli, mescolanze, sapori strani, incroci, contaminazioni, profezie e avvistamenti lontani. Il gruppo è tutto preso a intrecciare un tappeto volante diverso sotto a ogni lettore/interprete/cantante ospite, tutte voci che vanno controcorrente da Kae Tempest a James Massiah a Sampah, in un pezzo il fiato benedetto di Shabaka Hutchings. Una felicità contagiosa e primaverile.

6- Marino Severini dei Gang che a giugno pubblica “Quel giorno dio era malato”. Ho respirato attraverso ogni singola pagina, e le ho accarezzate tutte. Mi è venuto spesso da ridere e da incazzarmi, e qualche volta sono diventato triste. Un paio di volte mi sono girati i coglioni e l’ho lasciato là, ma poi non riuscivo a stargli lontano. Nel libro c’è lui, la sua voce, i suoi santi, il suo mondo, la sua testa, le sue prediche, il suo modo di muovere le mani e di agitarsi, ma leggendo ho scoperto che dentro ci sono anch’io e c’è buona parte della canzone che anch’io ho cantato in tutti questi anni.

7- L’album “My back was a bridge for you to cross” di Antony/Anohni and the Johnsons uscito a luglio. Sembra una raccolta di certi quarantacinquegiri oscuri così incomprensibili, assurdi e terribilmente fuori posto da noi negli anni Sessanta e Settanta quando eravamo tutti all’oratorio e poi a strappare il porfido dalla strada e le zolle di terra dagli stadi, figuriamoci dopo – tutti occupati chi col punk chi coi Duranduran chi con l’eroina chi con le P38. Così esplicitamente stracarico di tenerezza, di affetto, così stracarico d’amore e di dopo l’amore. E di carezze, di intimità e sussurri, di leccate all’improvviso e risate, di baci, di voli alti, di immersioni e immensità, del toccarsi e dello stringersi vicini dopo ad ascoltarsi i respiri, di quell’aria tepida che esce dalle sue narici così vicine al tuo viso. Libertà è restare vicini, a dirsi piano cose che nessuno senta. Libertà è contare i battiti del cuore con la punta delle dita. Ma le canzoni (come la libertà) durano poco, bisogna correre a rimettere il disco daccapo (e a difenderla, ogni libertà conquistata, senza mai stancarsi). E ancora. E ancora.

8- Fine agosto. Sante Cutecchia e Francesco Massaro ad Urupia, in Salento, che suonano e raccontano con Mariagrazia Fiore una di quelle storie disperate ma così piccole piccole che non finiscono nei giornali né dentro le televisioni. E’ la storia di Dana e alcune altre ragazze slovene vittime dei rastrellamenti dei fascisti italiani e delle rappresaglie dei nazisti che, deportate nel 1942 dapprima a Venezia poi a Trani, riescono a resistere. Qualcuna riesce anche a ritornare a casa, e a raccontare. Trovo che la “Bella ciao” più bella sia quella delle mondine mescolata a quella dei partigiani cantata dal gruppo raccolto intorno a Riccardo Tesi qualche anno fa per la riproposizione dello spettacolo omonimo. A pari merito c’è quella offerta da Goran Bregovic e dalla sua Wedding and Funeral Orchestra, che mi ha davvero commosso. E c’è quella che ho sentito suonare dal vivo da Marc Ribot (nella versione presente nell’album “Songs of resistance” c’è la voce scartavetrante di Tom Waits). E c’è anche questa versione di Sante e Francesco, così sanguinante e oscura – ne sono rimasto profondamente toccato.

9- Uno che si fa chiamare Capitano Merletti e che di militare o di militaresco non ha proprio niente – una chitarra al posto del fucile, capelli lunghi, barba, braccialetti, sorrisi, tanti colori addosso. L’ho sentito cantare e suonare, assieme a un violinista assai bravo, al Mismash a Pordenone a inizio settembre. All’inizio temevo fosse una cosettina hippy fumogena tipica da campagna veneta rassegnata & sottomessa, e invece il capitano si rivela presto un campione di Razza Piave deviata, un degnissimo rappresentante di quella schiuma sociale intelligente così detestata dagli sceriffi e da certi sindaci neroverdi che eleggono da queste parti. Una di quelle preziosità che la nostra provincia tiene ben nascoste in serbo per sé – come una volta Plasticost, Frigidaire Tango, Detonazione, Degada Saf, Dimitri Golowaskin, Qfwfq, Wax Heroes, Endless Nostalgia, Death in Venice, Inzirli, Funkwagen tutti diamanti nordestini impossibili da addomesticare nel gregge della “nuova musica italiana” ufficiale e finiti col rusco o su ebay, che praticamente è uguale. Per ciascuna canzone del capitano si potrebbe trovare una rassomiglianza con qualche cosa di bello/bellissimo/bellissimissimo andato a depositarsi nel fondo dei ricordi. A fine concerto una versione da brivido di “The thoughts of Mary Jane” di Nick Drake con l’autore che dalla sua nuvola guarda giù, sorride e approva.

10- Paolo Cognetti che in coda a “Giù nella valle” (il suo quarto staordinario ottomila in pochi anni, uscito a ottobre) mi prende da parte e mi spiega perché “Nebraska” è così importante per me e perché ho continuato a comprare i dischi di Bruce Springsteen in tutti questi anni.

11- Sono in giro in Lombardia ai primi di novembre a proiettare il docufilm dei Kina e a raccontare qualche scheggia delle mie storie. Arrivo una sera al centrosociale Pacì Paciana di Bergamo e a un certo punto mi accorgo che i miei vicini di banchetto parlano una lingua che confina con la mia: sono padovani e mi mostrano un paio di dischi prodotti da loro. Ho solo un’idea vaga di che cosa ci possa essere dentro i solchi, ma trovo che quelle copertine siano realizzazioni grafiche davvero notevoli e decido di prenderli seguendo l’istinto. D’altra parte, tanti anni fa avevo comprato “Unknown pleasures” solo perché la copertina mi aveva incuriosito ed attratto come una stella cometa, allora i Joy Division mica li conosceva nessuno. Concerto collettivo stasera – i primi fanno un po’ sorridere, così giovani. I secondi in lista sono loro. Dagli qualche secondo di silenzio per concentrarsi e staccare la spina dal resto del mondo, e senza preallarme scoppia un’eruzione e mi ritrovo nel magma fino alle ginocchia. Tutto intorno è nero, e questo è il suono di tutto il nero che ci circonda oggi. Nero che chiama guerra, pioggia battente e grandine, che chiama deserto e febbre e sete, e ghiaccio, e pestilenza. Il nero dei pensieri che sbattono addosso alle pareti della testa cercando un’uscita, il nero delle porte sbarrate che ci tengono lontani da un qualche oggi da provare a costruirci intorno e un qualche domani da poter sognare. Musica ben immaginata e altrettanto bene eseguita che mi incendia l’anima – un misto di amarezza, consapevolezza, determinazione, radicalità e quella luce fioca là in fondo. Si chiamano Wojtek e la loro musica mi è saltata addosso e non mi molla. Il più bel concerto di quest’anno.

12- Tutta da guardare scavare toccare assaggiare, ciascuna pagina una boccata d’aria fresca e pulita. E’ uscito a novembre il numero 5 di Respiro, rivista di grafica, disegni e ragionamenti completamente autoprodotta e autogestita. I vari contributi sono volontari e non retribuiti, quanto raccolto va ad alimentare la cassa antirepressione delle Alpi Occidentali – aiutano cioè alcune ragazze e ragazzi che si trovano chiusi in galera perché hanno provato a ragionare con la propria testa, e che hanno bisogno di respirare come e quanto noi che per ora siamo ancora fuori. Respiro è quello che manca perché l’aria è avvelenata, perché un poliziotto ci schiaccia a terra incrinandoci le costole, o a schiacciarci a terra è il silenzio obbligatorio che viene imposto a chi non si rassegna ad ubbidire alla voce e al manganello del padrone.

13- Il meraviglioso videoclip di Carlo Cagnasso per “Le colline di fronte” di Lalli e Stefano Risso, uscito a dicembre e visibile seguendo il link https://www.youtube.com/watch?v=24e5nNz064A. Evito di proseguire perché da qui in poi saprei scrivere solo parole seguite da punti esclamativi, e potrebbe sembrare un’autopromozione eccessiva.

Lalli Stefano Risso Qui copertina interna
Lalli e Stefano Risso – Qui

Lettori da spiaggia: la biblioteca della spiaggia di Plagemesu

Spiaggia di Plagemesu biblioteca da spiaggia

Nel golfo di Gonnesa presso la spiaggia di Plagemesu (SU), c’è una biblioteca molto carina a disposizione di tutti! La biblioteca è un bel invito per i lettori da spiaggia ed è gestita dalla biblioteca comunale di Gonnesa. Bella iniziativa. Accanto c’è anche un punto informativo turistico.

Lettori da spiaggia: La casa di tolleranza

Marco Vichi è uno scrittore fiorentino ed è autore di molti romanzi con protagonista il commissario Franco Bordelli, principalmente a Firenze e in Toscana. Le storie si svolgono dal 1943 fino agli anni settanta. Questo è composto di tre lunghi racconti:

  • La casa di tolleranza
  • Morto due volte
  • Natale di guerra

I tre racconti sono interessanti per le ambientazioni storiche (1949, 1958 e 1943) e le implicazioni sociali. Sono di rilievo per la narrazione, le intuizioni casuali del commissario per dar inizio alle indagini. Nell’ultimo racconto Vichi immagina di far incontrare il futuro poliziotto con lo scrittore Curzio Malaparte. Piacevoli da leggere.

Lettori da spiaggia: ELP

Antonio Manzini ha scritto un altro libro della serie del vicequestore Rocco Schiavone. Sono dieci anni di storie con ELP, da poco uscito per Sellerio. Amo questo personaggio così solitario, irriverente e molto disincantato dalla vita e dallo stato. Due inchiesta che portano Rocco ad essere sempre più introspettivo su di sè. Manzini è proprio bravo, non fa crescere il personaggio, lo fa vivere. Ovviamente non manca l’aspetto poliziesco ed investigativo e il contorno dei comprimari.

Cose belle del 2022 di Marco Pandin

Marco Pandin mi ha scritto le 13 cose belle del 2022. Sono sempre preziose per me, sono un bel regalo ed un appuntamento per rinnovare l’affetto e l’amicizia che ci lega. Penso siano importanti ed interessanti da leggere, del resto come quelle del 2021. Buona lettura, visione ed ascolto.

13 cose belle di Marco Pandin

Tredici cose belle del 2022.

Libri riviste dischi concerti incontri in ordine sparso, forse in ordine di temperatura. Tredici perché questo numero accende la superstizione.

– L’album “Solace” dell’irlandese Patrick Dexter, uscito in primavera. Musica immaginata e offerta da tutt’altro punto di vista [qui https://www.youtube.com/watch?v=YVDlIaRagCI un assaggio]. Registrata all’aperto verosimilmente lontano dalla città, nei microfoni entrano il violoncello e il fruscio disturbante dei ragionamenti a proposito della pandemia, ma anche il respiro del musicista e quello dello strumento, e l’aria che si sposta, e il canto degli uccelli, gli insetti curiosi che si avvicinano ai microfoni, le foglie sugli alberi e il va e vieni delle nuvole sullo sfondo. Manca solo il cane dei vicini, ma potrebbe anche esserci e non ci si fa proprio caso. Fa sorridere e insieme riflettere che venga pubblicato oggi un disco immaginato e realizzato in questo modo biologico e naturale e pacifico dopo decenni di battaglie sanguinose per conquistare artificialmente in studio il silenzio su cui costruire e far risaltare il suono nella sua purezza più glaciale. Ma così sembra tutto più caldo ed umano, e attraverso le orecchie senti il sole che ti entra sotto la pelle, e con lui in punta di piedi entrano tutto il verde dell’erba e l’azzurro del cielo e i sussurri delle api a risvegliare ogni amore di ogni bestia che tieni nascosta dentro. Addormentarsi in compagnia di questo disco è bellissimo. Lasciatelo proseguire, perché risvegliarsi mentre suona questo disco è, se possibile, ancora più bello ed appagante.

Toni Bruna che a mezzanotte canta e suona e racconta storie davanti al teatro Miela di Trieste, metà marzo. Al suo concerto quella sera erano rimaste fuori parecchie persone senza biglietto e senza green pass – e non era giusto. Così a un certo punto ha detto due parole, ha abbandonato il palco e la sala e si è messo lì fuori a fare il busker, davanti a cento e più anime in fiamme nonostante il borino. Cosa vi posso dire io di quelle sue canzoni di confine, che raccontano di gente rimasta sola e di posti rimasti soli senza la gente. Così esili, fatte d’acqua e d’aria, così leggere ad attraversare in volo le nostre discussioni e ragionamenti, i campi di grano e di battaglia, nazioni in conflitto e conflitti televisivi, le dogane, i cimiteri, il mare. Sono canzoni di costituzione fragile, che sembrano poco adatte a cantare di resistenze e rivoluzioni, eppure ciascuna si rivela come un modo diverso e inedito di parlare d’amore. Gli chiedo come fa, lui dice che le parole gli escono fuori così e non sa come mai. Adoro come fa strisciare le dita sulle corde della chitarra quando cambia gli accordi: è proprio lo stesso rumore che ho dentro in testa ogni volta che cambio idea, quando mi nasce un’idea nuova.

– l’album “Afrikan culture” di Shabaka Hutchings, uscito poco prima dell’estate, è uno di quei dischi che ti alzano di un metro o due da terra e ti lasciano là. All’inizio sembra quasi che si siano sbagliati e che dentro la copertina sia finito un disco di Stephan Micus. L’ha pubblicato una major, forse si saranno sbagliati anche loro – avranno creduto fosse jazz da vendere ai bancari. Nei negozi lo vendono ai bancari come jazz. E invece dentro ci sono i leoni, le terre perse, le schegge della mezzanotte, le barene dove non sei in terra né in acqua, i posti inesplorati che stanno dopo l’ultima fermata dell’autobus. Un continente intero di suggestioni compresso in una mezz’ora scarsa. Un’eruzione esplosiva di spiriti e presenze, migliaia e migliaia di metri cubi di rovente ispirazione ancestrale rilasciati nell’atmosfera. Tutt’altro che un documentario, una mappa o una profezia, o forse le tre cose insieme. Sono andato a rileggermi Iosif Brodskij che raccontava la precarietà dell’equilibrio e l’allarme dei sensi durante un viaggio in vaporetto, lui abituato com’era alla terraferma e al freddo. Un lavoro di una bellezza sconfinata e irraccontabile questo di Hutchings – e infatti è un po’ che sono qui che scrivo e cancello e riscrivo e cancello ancora queste ultime due tre righe senza trovare niente che si avvicini alle onde alte che mi si agitano nello stomaco e dietro gli occhi. Se esistono gli dei, li trovi sui vaporetti verso Castello e hanno di certo questo disco piazzato in loop perpetuo dentro i loro walkman.

– le ultime poesie di Gregory Corso, raccolte in “The golden dot” e stampate da Lithic Press in agosto [info e richieste qui www.lithicpress.com]. Molte sono senza titolo, solo la prima è al suo posto e forse anche la seconda mentre tutte le altre sono in ordine casuale – come voleva lui. Sono un viaggio che si trascina dentro gli anni che seguono la morte del suo amico e mentore Allen Ginsberg, viaggio tormentato dalla depressione e da reiterati disastri di salute e che si chiude con la morte di Corso avvenuta nel gennaio del millennio nuovo che lui desiderava fortemente toccare con le dita. Figlio di due minorenni poverissimi di origine italiana e presto abbandonato, aveva passato l’infanzia tra orfanotrofi e affidamenti temporanei, e l’adolescenza tra la strada e il riformatorio. E’ finito dietro le sbarre a diciassette anni per aver rubato di che vestirsi – messa così somiglia a una storia di quelle che raccontano in chiesa. E’ nella biblioteca del carcere che Gregory trova ispirazione e riscatto, i suoi compagni di prigionia sono i suoi angeli. Nel libro i curatori spiegano perché ci siano voluti vent’anni per pubblicare queste righe preziose. Corso è uno dei miei poeti preferiti. Nell’estate del 1980 ho avuto la fortuna e il privilegio di assistere a una sua breve lettura: indossava la divisa dello sbruffone, ma nascosto sotto c’era uno spirito sensibile che continuava a meravigliarsi della sua popolarità, e a temerla – come temeva la solitudine.

– il docufilm “Po” di Andrea Segre e Gian Antonio Stella uscito nelle sale a marzo [qui https://www.youtube.com/watch?v=FT4tyi9H7g8 un estratto]. Un’ora e mezza di accelerazioni e strattoni del cuore durante la quale ho messo a confronto le immagini che mi scorrevano dinanzi con i racconti dei miei genitori e dei miei nonni. Storie di quando non ero ancora nato, successe per davvero solamente qualche anno prima dal mio arrivo e che però ho sempre immaginato leggende da chissà quale passato remoto, il tutto filtrato attraverso la mia esperienza piccola – l’acqua granda del 1966 che ancora ricordo distintamente. Sono le storie minime tipiche della gente povera, fatte di roba poco consistente come schegge, calcinacci, segni sui muri, attimi, polvere, gocce, illusioni, e qualche cosa grossa che non si dimentica come la condivisione, la speranza, le parole che guariscono e il sostegno reciproco. Storie dove a volte basta solo un sorriso per squarciare la nebbia più nera e alleggerire il carico grave della miseria. Il documentario racconta una cosa importante, che è poi la stessa che aveva insegnato il grande vecchio Mario Rigoni Stern: è solo soffermandosi ad ascoltare e raccogliere tutte le piccole storie che la Storia può meritarsi un’iniziale maiuscola orgogliosa e fiera e che perdura. Poi però nei libri va a finire quell’altra, quella che insegnano a brandelli nelle scuole e omogeneizzata dentro le televisioni e che io scrivo apposta in minuscolo: storia che ha la stessa voce del padrone e viene descritta invariabilmente da quelli che hanno imparato a scrivere sotto la dettatura feroce di chi ha vinto.

– Tiziano Sgarbi che canta in una piccola corte giù sotto casa prima di un suo amico olandese, ai primi di giugno. Senza amplificazione, senza microfono, senza segreti e senza mi cantino. Non lo vedevo da un po’, da quando si faceva chiamare Bob Corn: quei vestiti che nascondono male la sua magrezza, il grigio dei capelli che non riesce ad annacquare la sua determinazione, la sua irrequietezza inossidabile al tempo che passa. Stiamo parlando di uno che ha impastato con le sue mani la scena indipendente del nostro paese, giusto per puntualizzare. Fa solo pochi pezzi, uno è di Will Oldham un altro non ricordo di chi. A un certo punto racconta “La mela di Odessa” e io vado in frantumi, e mentre sono là che cerco di raccogliere i pezzi da terra mi accorgo che il peso di questi anni di ciarpame new wave pop punk non è affatto riuscito a schiacciarmi. E nonostante la musica leggerissima che cola giù dalle radioline e dai telefonini del mondo intero io ritrovo respiro, e ritrovo aria, e ritrovo luce e voglia, e mi ricarico di salute, di propositi, di energia buona, di futuri possibili. Il suo amico olandese è Zea cioè Arnold De Boer cioè cazzo il cantante degli Ex – che per me significa ritrovarmi ad abbracciare quella persona che per anni mi ha tenuto per mano e sorretto mentre ero preso a non affogare nella sfiga, ma che ho solamente potuto intravedere di sfuggita dentro ai dischi. E invece di dirgli grazie e raccontargli tutto riesco solo a restarmene là col respiro sospeso, gli occhi umidi e le parole incastrate in gola.

– la performance di Path in apertura del concerto degli Ombra al Tank di Bologna, verso metà aprile. Luci basse e odore acre di disordine misto a birra spanta, come il giorno dopo un party. Eccolo che entra, lupo grigio che neanche si guarda intorno, in un attimo è già sul palco. Tiene lo sguardo raso terra sì, ma dai denti gli escono versi roventi e le parole sono pallottole. E’ così abile che neanche prende la mira: al primo pezzo ero là stordito, mi ha fatto fuori al secondo. Me li vedo già tutti quei miei amici sapienti e criticoni, quelli che si annoiano perché hanno ormai già ascoltato e capito tutto, a disquisire sulle percentuali di Woody Guthrie e di Billy Bragg dosate dentro a questa voce giovane. Voglio tanto bene a Woody e a Billy ma lasciamoli stare dove sono per carità, per me è Path e basta. Path che canta quelle sue canzoni arruffate e con poca speranza dentro cui ho ritrovato un pezzo di me, ed è un pezzo che sanguina forte: mi guarda fisso negli occhi e non sorride affatto.

– il libro “La Resistenza in 100 canti” curato da Alessio Lega uscito ad aprile [cercatelo qui www.mimesisedizioni.it oppure qui www.alessiolega.it]. Duecentocinquanta pagine abbondanti. Un mattone, e bello pesante, che può venire utile: prendendo con attenzione la mira lo si può scagliare contro le finestre pulite dei palazzi di chi comanda. Il mio caro amico e fratello e compagno salentino ha raccolto una serie di scritti commoventi, offrendo per ciascuna canzone una bella storia che ha per protagonisti ragazze e ragazzi disposti a sacrificare sé stessi e il loro futuro piuttosto che vivere senza libertà. E sono storie vere, pensate: c’è gente che si è addirittura fatta ammazzare per permettere a me e a voi di cantare. Lo si dovrebbe far circolare nelle scuole per educare i bambini alla solidarietà e alla gentilezza, e invece è un libro che davvero non ha posto in questo paese di sottosegretari e memorie tagliate corte.

– il concerto di Silva Cantele a.k.a. Phill Reynolds in un quartiere défavorisée a Padova, fine luglio [qui https://www.youtube.com/watch?v=0IW_WG25YtM una scheggia dimostrativa]. Ho abitato proprio lì vicino per quasi dieci anni, solo qualche strada più in là verso la stazione dei treni, e per i trent’anni precedenti a Mestre – una periferia anonima e qualsiasi grigioscura di rassegnazione e avvelenata di cemento armato, asfalto e smog. L’Arcella è uno di quei posti lontani dalle passeggiate delle domeniche perbene che i quotidiani e le televisioni locali raccontano sempre e soltanto in termini di disagio, malessere, maleducazione e insofferenza, eppure c’è parecchia gente intorno che smette presto di guardare i telefonini chiacchierare e bere birra, si avvicina e ascolta con attenzione. Questa sera Silva presenta “A ride”, il nuovo lavoro appena pubblicato: storie di strada, di fuga, di sbarre, di pioggia dura che cade. Usa la chitarra come se imbracciasse un fucile, lei ricambia le sue carezze muorendogli d’amore tra le mani. Ogni tanto la maltratta (per il bis la prende a schiaffi ottenendo in cambio una “Ring of fire” da urlo), ci annoda sopra arpeggi irregolari e urgenti e scattosi. Lo so bene che bestemmio, e chissenefrega, ma stasera mi sembra proprio come Johnny Cash quella volta a Folsom o a San Quentin per i carcerati – una rasoiata ogni rima, un calcio sui coglioni ogni strofa, ogni ritornello un chiodo che ti striscia sulla schiena e si conficca fra le costole.

– il concerto dei Caged al CS Brigata di Imola, maggio. Stavamo mangiando allo stesso tavolo – figuriamoci, io avevo appena conosciuto Serena la batterista ma stavamo parlando di tutt’altro, mezz’ora prima manco sapevo che con quegli altri ci suonasse insieme. Si chiacchiera, loro tutti belle facce, svegli, bravi, simpatici. Una compagnia piacevole in un posto accogliente e che funziona bene – cosa chiedere di più. Al nostro tavolo si aggiungono altre ragazze e ragazzi. Tanti auguri a Berto il tecnico tuttofare – torta di compleanno a sorpresa, si fa un pezzetto ciascuno. Neanche due minuti dopo tocca a loro. Attaccano – e nel senso guerresco e incendiario della parola. Cazzo, che impatto: decisi, precisi, martellanti e determinati – tengono il livello della tensione sempre molto alto proprio come voglio io nei miei desideri sonori più sporchi. Un torrente di lava che brucia tutto, che travolge e butta giù tutto ma che lascia dietro sé terreno nuovo e vivo. A fine concerto mi fiondo a ringraziarli mostrando tutto il mio stupore e la mia ammirazione, loro sorridono e il cantante si schermisce e mi chiede scusa perché è sudato.

– il fumetto “Our true colors” di Gengoroh Tagame, tradotto in italiano e pubblicato da Panini a giugno [sito ufficiale qui www.tagame.org, ma non cliccateci sopra se siete impressionabili]. Alcune cose del medesimo autore le trovate tradotte in inglese, francese e spagnolo nei formati per e-book. In italiano c’è poco o niente: nelle librerie più fornite e online ci sono soltanto quest’ultima opera e il precedente volume “Il marito di mio fratello” (2017), pubblicato sempre da Panini. Va anche detto che questi bara non sono cose da leggere disinvoltamente in treno o nella sala d’aspetto del medico di base, per cui capisco quanto sia difficile prodigarsi a diffondere i lavori di questo mitico disegnatore giapponese. Quarant’anni di carriera che lo hanno fatto divenire un riferimento internazionale. Cazzi e culi spremuti dentro a dozzine di storie esplicite, ciascuna un vero e proprio monumento grafico alla sopraffazione, storie d’amore passate attraverso un distorsore dentro alle quali come minimo ci si pesta duro e ci si fa male – “The house of brutes” e “The silver flower” le più drammatiche. Nei lavori più recenti di Tagame attraverso le tavole i gemiti e i fluidi corporei si fa però largo spazio a sentimenti, ragionamenti e condivisione. Dove ne “Il marito di mio fratello” il centro della riflessione è una ridiscussione della forma e della funzione sociale della struttura familiare, in “Our colors” ci si concentra sulle difficoltà e le fragilità dell’adolescenza e sul processo lento e delicato di costruzione dell’identità. Trovo siano entrambi dei libri da far leggere ai ragazzini, anzi che siano libri da leggere assieme ai ragazzini essendo disposti ad affrontare domande spinose e a dare risposte guardandoli in faccia. Libri che accendono arcobaleni in cielo e nel cuore, e migliorano questo mondo.

– i Nêuvegramme che suonano al Raindogs di Savona, metà giugno. Sì d’accordo il loro disco nuovo “L’inesausta tensione” è breve ma ben fatto e ben strutturato, suoni curati e parecchia attenzione ai dettagli – un’autoproduzione a cinque stelle. Ma ciò che esce e soprattutto ciò che mi resta dentro da questa performance è davvero tutt’altra cosa, non so se riesco a prenderne le misure. Il concerto è complicato e stupefacente e mi accende in testa tanti pensieri e altrettanti ricordi. Mi piace che dal palco non facciano prediche né promesse. Diversamente da quanto facevamo noi una volta, incontro sempre più spesso dei giovani musicisti che si impegnano a studiare, a leggere, ad esercitarsi, a conoscere, a ragionare prima di salire su un palco o di mettersi a registrare. A cose così noi allora generalmente non ci si pensava, tutti quei nostri discorsi sulla spontaneità e sull’improvvisazione che così spesso erano solo maschere appiccicate alla faccia della nostra inadeguatezza. Penso che se i Nêuvegramme ci fossero stati quarant’anni fa avrebbero polverizzato la scena, e forse proprio per questa ragione credo sia meglio se ne stiano a suonare le loro cose in quest’oggi, in questo presente, forse in qualche modo vagamente debitori al punk di allora ma culturalmente lontanissimi dai sedicenti combattenti del passato – guarda che fine di merda hanno (…abbiamo) fatto. Penso che la musica nuova per mantenersi viva e diffondere amore e ispirazione debba tenersi lontana anche dalle corse dei cani e dai raduni dove si arriva a conquistare un quarto d’ora sotto i riflettori giocando sporco al massacro contro altri ragazzi che hanno la sola colpa di condividere i tuoi stessi desideri. E penso anche che questo sia il più bel concerto a cui ho assistito quest’anno (facciamo a pari merito con i canadesi Godspeed You Black Emperor a Bologna a ottobre, dai).

– “Designing riots”, rivista illustrata per canaglie, tre numeri usciti fra febbraio e settembre. Formato tascabile, tutti belli da guardare e molto istruttivi da leggere – estrapolo una frase a caso: “Usa la tua creatività: i nostri nemici sono privi di fantasia, prevedibili, reagiscono in modo meccanico e di fronte alla novità sono spesso impreparati…”. Sembrano le note che farcivano uno qualsiasi degli ultimi dischi dei Crass, periodo Stop the City – al tempo si pensava diffusamente che rispetto all’hc americano muscoloso e palle in mostra quei poveri hippies vegetariani fossero sbiaditi e patetici, ma quello che i Crass urlavano si è poi rivelato essere il nostro presente e la nostra normalità merdosa di questi anni. Poche pagine ogni numero, una quarantina, che dire dense di ispirazione è riduttivo. Ognuna un manuale di istruzioni per come muoversi per le strade in consapevolezza e in sicurezza che potrebbe tornare utile e, metti che succeda un’altra Diaz, rivelarsi prezioso in uno qualsiasi di questi giorni di governo nuovo.

– il film “Margini” diretto da Niccolò Falsetti, uscito in sala a settembre [qui https://www.youtube.com/watch?v=LZUVlzIPltY il trailer ufficiale]. Raccontata con le parole che ci abitano abitualmente in bocca, è la storia di quando i sogni sono troppo grandi per essere compresi dalla realtà delle cose, dalla cosiddetta normalità. Eppure senza sogni, soprattutto senza grandi sogni, la vita non va avanti – è che a un certo punto tanti smettono e si chiudono in casa, ordinano pizze e sushi che qualcuno gli porta in cambio di uno scontrino e di un’elemosina, e sprecano ore di vita fra TikTok e YouTube. Per farla breve e senza spoilerare troppo il film racconta la storia di tre amici che suonano in un gruppo e si sbattono per restare a galla dentro a una provincia immobile. La musica è il collante che tiene insieme loro e l’intera loro rete di relazioni e di amori, tutti bellissimi e tutti disperati. Sembra che anneghino nella sfiga, in verità stanno conquistando la loro vita colpo su colpo finendo ciascuno col piantare una bandiera nera a sventolare sulla vetta. “Margini” racconta cose che sono successe spesso e ovunque, e ridotte presto al silenzio e all’oblio, già da poco dopo la metà degli anni Ottanta in una qualsiasi periferia occidentale. E’ proprio vero: per certi sogni smisurati qui fuori, qui nel mondo dove finiscono le pacchie, non c’è affatto posto.

Mi aggancio a quest’ultimo pezzo. La cosa più bella di quest’anno me l’hanno regalata dei miei vecchi compagni. Nel corso del 2021 avevo curato un libro/cd/dvd dei Kina, che poi nel 2022 abbiamo presentato e discusso in giro: ecco, girare a fare presentazioni e proiezioni con Gianpiero e Sergio e gli altri mi ha restituito quello che la sfortuna tanti anni fa mi aveva portato via. Col pretesto di questi incontri ho avvicinato ragazze e ragazzi meravigliosi che si fanno un culo della madonna per mantenere aperti e puliti e funzionanti degli spazi liberi. Quando avevo vent’anni dai palchi volevano convincermi che il futuro non ci fosse più: era gente già ricca che voleva anche i miei soldi, era gente grigia e spenta che voleva i miei sogni, era gente già morta che voleva la mia giovinezza. Non gli ho creduto affatto, perché pensavo che il mio futuro dipendesse per grande parte da me, ed è bellissimo rendersi conto oggi a 65 anni suonati (ma non è stata una scoperta tardiva, quanto una serie di conferme giunte nel corso del tempo) che valeva la pena non arrendersi e sbattersi e lottare, e che non ho affatto finito di imparare, di conoscere, di avvicinare, scambiare, migliorare. Grazie a tutti voi che mi state allungando e rendendo così dolce e interessante la vita. Dico a voi. Siete voi il futuro, adesso. Guardatevi, come siete belli.

Ostrega, sono quattordici. Non vale. Grazie per avermi ancora fatto posto qui. Grazie tantissime.

Marco Pandin
stella_nera@tin.it

Lettori da spiaggia estate 2022

Domanda: Perché hai letto questo libro?

Risposta: Perché non ci lasci stare e pensi a leggere per conto tuo o al tuo blog?!? Grazie.

Va bene, messaggio ricevuto, forte e chiaro.

Aristotele e Dante scoprono i segreti dell’universo di Benjamin Alire Sáenz

A cura di mia figlia Anna.

Premessa: NON FATEVI INGANNARE DAL TITOLO! Lo so che sembra un libro per bambini in cui Dante Alighieri e Aristotele si incontrano e raccontano l’universo, ma non è affatto così!
Aristotele (detto Ari) e Dante sono due ragazzi di 15 anni che vivono nella città texana El Paso, al confine con il Messico, nelle estati tra il 1987-88. Aristotele non ha amici e una guerra dentro di sé che non sa come combattere. Dante pure, solo che lui cerca anche essere felice.
È davvero difficile per me esprimere a parole i miei sentimenti verso questo libro, quanto l’ho amato, lo amo e lo amerò sempre. L’ho letto per la prima volta un anno fa e adesso l’ho letto in inglese, com’è stato scritto in origine, ed è stato ancora più commovente e travolgente. Detesto il malinteso che c’è riguardo questo libro, questa NON è una storia d’amore (tranne letteralmente nell’ultimo capitolo), questo è il racconto di un disperato e incessante cercare di essere qualcun’altro, di crescita, di una morte e una rinascita, e molto altro che non riesco a descrivere.
Credo che in particolare gli adulti dovrebbero leggerlo per rendersi conto di tante cose, perché l’essere adulti viene completamente distrutto, messo a nudo, ma non in maniera “Gli adulti e i genitori fanno schifo”, ma in “Gli adulti non sono sempre adulti, e va bene così”.
Questo rimase per circa 8 mesi il mio libro preferito, poi durante l’estate questo ruolo è stato occupato da altri due libri, ma mi ha conquistato nuovamente (questo articolo l’ho scritto un anno fa e poi l’ho completamente dimenticato, il mio attuale libro preferito è “La stanza di Giovanni” di James Baldwin)… non vedo l’ora che esca il sequel il 12 Ottobre, “Aristotele e Dante si tuffano nelle acque del mondo” (che adesso, che é passato un anno, ho letto sempre in inglese e mi é piaciuto quasi quanto il primo).

Peter Hammill canta e vuole la pace adesso

Peter Hammill “The future now”

Enrico mi chiede di partecipare scegliendo una canzone di pace. Ho
scelto una canzone di quando avevo vent’anni – sapete, è una di quelle
canzoni che mi sarebbe proprio piaciuto scrivere (e ce ne sono dozzine).
La traduzione è una di quelle che faccio io, senza istruzione né
pretese. Allora sembrava possibile che la musica, la letteratura, l’arte
potessero avere una qualche influenza positiva sul destino del mondo. Ma
così non è stato. Magari fosse che i messaggi che viaggiano con la
musica e la poesia potessero mettere radici ovunque. Dopo aver letto
Addio alle armi” di Ernest Hemingway non ci sarebbe dovuta essere
un’altra guerra mondiale. Dopo aver letto “Urlo” di Allen Ginsberg si
sarebbe dovuti scendere nelle piazze a cantare a piangere ad
abbracciarsi e accarezzarsi e baciarsi e fare l’amore ovunque e in tutti
i modi che ci venivano in mente. Sarebbe stato meraviglioso. Dopo aver
letto un qualsiasi scritto di Mario Rigoni Stern o “La storia” di Elsa
Morante
si sarebbe dovuta insegnare la cultura della pace e del sostegno
reciproco nelle scuole, ci si sarebbe dovuto prendere amorevolmente cura
dei bambini e dei più deboli, degli sfortunati, degli anziani. Ma, come
sappiamo, niente di tutto questo è successo. Dopo “All you need is love
si sarebbero dovute distruggere tutte le armi e abbattere i confini, ci
si sarebbe dovuti occupare di ospedali, scuole, mense e case per tutti.
E invece no, abbiamo continuato ad armare i confini di stato e costruire
portaerei, mine, lanciafiamme e cannoni. D’altra parte sono duemila anni
che c’è gente disposta a mentire, a rubare, rapinare stuprare torturare
e massacrare convinta di mettere in pratica le nobili verità del
vangelo.
Peter Hammill ha scritto “The future now” nel 1977, quando non aveva
ancora trent’anni, e l’ha inclusa nell’album omonimo del 1978. La
versione che ha fatto il nido nel mio cuore è quella dell’album dal vivo
The margin” (1985). Riascoltarla oggi mi trasmette uno spaesamento
forte: mi sembra di aver percorso tanta strada, ma se mi guardo intorno
il mondo è fermo. Fermo proprio sull’orlo del precipizio, a guardare
giù.
Marco Pandinstella_nera@tin.it

The Future NowIl futuro adesso
Here we are, static in the latter half
Of the twentieth century
But it might as well be the Middle Ages,
There'll have to be some changes
But how they'll come about foxes me.
I want the future now,
I want to hold it in my hands;
All men equal and unbowed,
I want the promised land.
But that doesn't seem to get any closer,
And Moses has had his day...
The tablets of law are an advertising poster,
Civilization here to stay
And this is progress?
You must be joking!
Me, I'm looking for any kind of hope.
I want the future now,
I want to see it on the screen,
I want to break the bounds
That make our lives so mean.
Oh, blind, blinded, blinding hatred
Of race, sex, religion, colour, country and creed,
These scream from the pages of everything I read.
You just bring me oppression and torture,
Apartheid, corruption and plague;
You just bring me the rape of the planet
And joke world rights at the Hague.
Oh, someday the Millennium!
But how far is someday away?
I want the future now
I'm young, and it's my right.
I want a reason to be proud.
I want to see the light.
I want the future now,
I want to see it on the screen,
I want to break the bounds:
Make life worth more than dreams.
Eccoci, fermi nella seconda metà del ventesimo secolo ma potrebbe anche
essere il medioevo
Serviranno dei cambiamenti, sì
Ma pensare a come arriveranno mi confonde
Voglio il futuro adesso
Voglio stringerlo tra le mani
Tutti uguali e liberi
Voglio la terra promessa ma pare che non ci siamo avvicinati più di
quanto Mosè aveva fatto allora
Le tavole della legge come cartelloni pubblicitari
La civiltà è qui per rimanerci
E questo lo chiamiamo progresso? Stai scherzando, vero?
Io, io cerco una speranza qualsiasi
Voglio il futuro adesso
Lo voglio vedere alla televisione
Voglio spezzare le catene che rendono così infelice la nostra vita
Odio cieco, accecato, accecante nei confronti di razza, sesso,
religione, colore, paese e credo
Ecco ciò che urlano le pagine di tutti i giornali che leggo
Mi raccontano di oppressione e tortura, segregazione, corruzione e
pestilenze
Mi raccontano della distruzione del nostro pianeta e barzellette sui
diritti umani
Oh, domani arriverà il millennio nuovo
Ma quanto è distante il domani?
Voglio il futuro adesso
Sono giovane, è un mio diritto
Voglio un motivo per cui essere fiero
Voglio vedere la luce
Voglio il futuro adesso
Voglio vederlo alla televisione
Voglio spezzare le catene
Voglio che vivere diventi meglio che sognare

A Verona: Se ho Vinto Se ho Perso docufilm sui Kina

A Verona giovedì 28 aprile 2022, sarà presentato il libro e il DVD “Se ho vinto Se ho perso”, dedicati al gruppo anarcopunk dei Kina, storica band della scena underground italiana degli anni’80.
Saranno presenti il curatore del libro Marco Pandin di stella *nera e Sergio Milani, batterista e voce dei Kina e Frontiera. All’evento sarà proiettato il docufilm “Se ho vinto Se ho perso” diretto da Luca Rossi, a cui saranno presenti Marco e Sergio.

Vi aspettiamo a Verona, presso La Sobilla in Salita San Sepolcro, 6b.